Roma, 3 mar
2014 – di Stefano Livadiotti (Dal settimanale l’Espresso online del 10/2/2014)
– I partiti politici italiani se le sono date di santa ragione per favorire a
colpi di leggi i loro rispettivi bacini elettorali. Ma su un fronte hanno
lavorato tutti insieme appassionatamente.
L’obiettivo
era quello di garantire un trattamento fiscale di straordinario privilegio ai
loro rappresentanti in parlamento (ma le stesse regole sono previste anche per
gli onorevoli regionali). Ed è stato perfettamente centrato, con un lavorìo
rimasto sempre sotto traccia.
Pochi lo
sanno: l’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora
concentrata sui benefici economici e pensionistici degli onorevoli.
Ma quelli
fiscali sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede
alla Camera in rappresentanza del popolo italiano è sottoposta a un’aliquota
media Irpef del 18,7 per cento. Ecco come funziona, documenti ufficiali alla
mano (ricavati dal sito istituzionale della Camera).
Prendiamo un
parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare
mai una seduta di Montecitorio. La voce più pesante della sua busta paga è
l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno.
Dall’importo
vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro
l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è
esentasse, come vedremo (e come d’altronde è scritto nero su bianco nella
relazione al 31 dicembre 2011 su Attività e risultati della Commissione
Giovannini sul livellamento retributivo Italia-Europa).
L’onorevole
subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918
euro (11.019 euro l’anno). Dall’indennità parlamentare viene infine detratta
una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria
integrativa.
Il
trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno
positivo, tutti benefit esentasse. La prima è la diaria, una sorta di rimborso
per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037
l’anno) e viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza. La seconda è
il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese
(44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con pezze d’appoggio
(per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo
forfettario. La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal
fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere
treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo (ai fini della
nostra simulazione abbiamo ipotizzato che ciò gli consenta di risparmiare 5
mila euro tondi l’anno) e un rimborso forfettario delle spese di trasporto (ma
non viaggia già gratis?) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno). La quarta
voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro
l’anno) per le bollette telefoniche.
Il
pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute
previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a
189.431 euro. Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di
favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è
di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro. Che
corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per
cento.
Qualunque
altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa
somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con
una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe
mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del
39,4 per cento).
L’onorevole
paga dunque solo il 47 per cento di quello che toccherebbe a un cittadino
comune (e per semplicità non si è tenuto conto degli ulteriori benefici di cui
gode sulle addizionali regionale e comunale) e risparmia ogni anno qualcosa
come 39 mila euro d’imposta (vedere la tabella nella pagina a fianco). A
consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa,
da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo
unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il
reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche
elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e
comunali) e ai giudici costituzionali, «purché l’erogazione di tali somme e i
relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i
trattamenti dei soggetti stessi».
Il rispetto
dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento
rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione
fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle
funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione. Ma il parlamento ha
deciso diversamente. Costringendo altri uffici pubblici a fare i salti mortali
per non doverne censurare le scelte. Basti pensare che il Gruppo di lavoro sull’erosione
fiscale, costituito a suo tempo da Tremonti per tagliare la spesa pubblica e
presieduto da Vieri Ceriani, non avendo altri criteri di rilievo costituzionale
per giustificare le ragioni di tali benefici fiscali ha dovuto classificarli
tra le misure a rilevanza sociale, cioè alla stregua di quelle a favore delle
Onlus e del terzo settore e di quelle che aiutano l’occupazione. Poi dice
l’antipolitica.
Ma non è
finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento a Lorsignori doveva sembrare
ancora poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato
bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di
fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base
all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir (Decreto del Presidente della
Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917).
Ecco come
hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio
in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare
di 784 euro.
Trattandosi
di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da
tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dello
chèque. L’articolo 17, comma 1 del D.P.R. 917/86 prevede, come per il Tfr dei
lavoratori, una tassazione separata dell’assegno di fine mandato, per evitare
che si sommi al reddito dell’anno in cui viene incassato, facendo così scattare
un’aliquota fiscale più alta.
Ma c’è
un’altra disposizione (contenuta nell’articolo 19, comma 2 bis del Tuir) che
riguarda il metodo di tassazione separata dell’indennità spettante ai
dipendenti pubblici (buonuscita per gli statali) e agli assimilati (soci
lavoratori delle cooperative, sacerdoti e parlamentari): dice che la base
imponibile dell’assegno va determinata in funzione del peso del contributo a
carico del datore di lavoro sul totale del contributo previdenziale. Per capire
meglio, prendiamo un caso concreto. Quello di un dipendente pubblico, la cui
indennità di buonuscita è alimentata da un contributo obbligatorio a carico del
lavoratore nella misura del 2,5 per cento e da contributi a carico del datore
di lavoro del 7,10, per un totale del 9,60 per cento. Il contributo pubblico
del 7,10 per cento corrisponde al 73,96 del 9,60 per cento. Quindi al travet
verrà tassato il 73,96 per cento della buonuscita.
Non avviene
così nel caso dei parlamentari. Disciplinando da soli il sistema di
rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un
meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non
pagare un euro bucato di tassazione separata sull’assegno di fine mandato. Il
trucco è tanto banale quanto efficace: mentre per il dipendente pubblico, come
abbiamo visto, il 73,96 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di
lavoro; nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di
parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non deve pagare.
Non è certo da questi politici (a parte qualche lodevole eccezione) che ci si
può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse.
Articolo dell’Espresso: http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/02/07/news/tasse-ecco-come-la-casta-si-e-dimezzata-l-aliquota-1.151800
Testo
tratto dal saggio di Stefano Livadiotti “Ladri – Gli evasori e i politici che
li proteggono” (Bompiani)
Visto
su : http://www.forzearmate.org
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