venerdì 14 marzo 2014

Tasse, ecco come la Casta si è dimezzata l’aliquota. Con un trucchetto, grazie a un lavorìo rimasto sempre sotto traccia, è passata la riduzione al 18,7 delle tasse 
sulla busta paga di deputati e senatori



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Roma, 3 mar 2014 – di Stefano Livadiotti (Dal settimanale l’Espresso online del 10/2/2014) – I partiti politici italiani se le sono date di santa ragione per favorire a colpi di leggi i loro rispettivi bacini elettorali. Ma su un fronte hanno lavorato tutti insieme appassionatamente.

L’obiettivo era quello di garantire un trattamento fiscale di straordinario privilegio ai loro rappresentanti in parlamento (ma le stesse regole sono previste anche per gli onorevoli regionali). Ed è stato perfettamente centrato, con un lavorìo rimasto sempre sotto traccia.

Pochi lo sanno: l’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici economici e pensionistici degli onorevoli.

Ma quelli fiscali sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera in rappresentanza del popolo italiano è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento. Ecco come funziona, documenti ufficiali alla mano (ricavati dal sito istituzionale della Camera).

Prendiamo un parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare mai una seduta di Montecitorio. La voce più pesante della sua busta paga è l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno.

Dall’importo vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è esentasse, come vedremo (e come d’altronde è scritto nero su bianco nella relazione al 31 dicembre 2011 su Attività e risultati della Commissione Giovannini sul livellamento retributivo Italia-Europa).

L’onorevole subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918 euro (11.019 euro l’anno). Dall’indennità parlamentare viene infine detratta una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria integrativa.

Il trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno positivo, tutti benefit esentasse. La prima è la diaria, una sorta di rimborso per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037 l’anno) e viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza. La seconda è il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese (44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con pezze d’appoggio (per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo forfettario. La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo (ai fini della nostra simulazione abbiamo ipotizzato che ciò gli consenta di risparmiare 5 mila euro tondi l’anno) e un rimborso forfettario delle spese di trasporto (ma non viaggia già gratis?) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno). La quarta voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro l’anno) per le bollette telefoniche.

Il pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a 189.431 euro. Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro. Che corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per cento.

Qualunque altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del 39,4 per cento).


L’onorevole paga dunque solo il 47 per cento di quello che toccherebbe a un cittadino comune (e per semplicità non si è tenuto conto degli ulteriori benefici di cui gode sulle addizionali regionale e comunale) e risparmia ogni anno qualcosa come 39 mila euro d’imposta (vedere la tabella nella pagina a fianco). A consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa, da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) e ai giudici costituzionali, «purché l’erogazione di tali somme e i relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi».

Il rispetto dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione. Ma il parlamento ha deciso diversamente. Costringendo altri uffici pubblici a fare i salti mortali per non doverne censurare le scelte. Basti pensare che il Gruppo di lavoro sull’erosione fiscale, costituito a suo tempo da Tremonti per tagliare la spesa pubblica e presieduto da Vieri Ceriani, non avendo altri criteri di rilievo costituzionale per giustificare le ragioni di tali benefici fiscali ha dovuto classificarli tra le misure a rilevanza sociale, cioè alla stregua di quelle a favore delle Onlus e del terzo settore e di quelle che aiutano l’occupazione. Poi dice l’antipolitica.

Ma non è finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento a Lorsignori doveva sembrare ancora poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir (Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917).

Ecco come hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare di 784 euro.

Trattandosi di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dello chèque. L’articolo 17, comma 1 del D.P.R. 917/86 prevede, come per il Tfr dei lavoratori, una tassazione separata dell’assegno di fine mandato, per evitare che si sommi al reddito dell’anno in cui viene incassato, facendo così scattare un’aliquota fiscale più alta.

Ma c’è un’altra disposizione (contenuta nell’articolo 19, comma 2 bis del Tuir) che riguarda il metodo di tassazione separata dell’indennità spettante ai dipendenti pubblici (buonuscita per gli statali) e agli assimilati (soci lavoratori delle cooperative, sacerdoti e parlamentari): dice che la base imponibile dell’assegno va determinata in funzione del peso del contributo a carico del datore di lavoro sul totale del contributo previdenziale. Per capire meglio, prendiamo un caso concreto. Quello di un dipendente pubblico, la cui indennità di buonuscita è alimentata da un contributo obbligatorio a carico del lavoratore nella misura del 2,5 per cento e da contributi a carico del datore di lavoro del 7,10, per un totale del 9,60 per cento. Il contributo pubblico del 7,10 per cento corrisponde al 73,96 del 9,60 per cento. Quindi al travet verrà tassato il 73,96 per cento della buonuscita.

Non avviene così nel caso dei parlamentari. Disciplinando da soli il sistema di rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non pagare un euro bucato di tassazione separata sull’assegno di fine mandato. Il trucco è tanto banale quanto efficace: mentre per il dipendente pubblico, come abbiamo visto, il 73,96 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di lavoro; nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non deve pagare. Non è certo da questi politici (a parte qualche lodevole eccezione) che ci si può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse.


Testo tratto dal saggio di Stefano Livadiotti “Ladri – Gli evasori e i politici che li proteggono” (Bompiani)

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