Lettera ai miei studenti indiani sugli effetti linguistici
dei colpi d’arma da fuoco partiti dal ponte di una petroliera italiana
di Alberto Prunetti
Care ragazze, cari ragazzi,
per svariati mesi sono stato il vostro insegnante di
italiano tra Mumbai e Bangalore. La maggior parte di voi veniva dal Kerala.
Alcuni dei vostri genitori erano pescatori. Ricordo i sacrifici dei vostri familiari, che speravano di
regalarvi un futuro con una laurea in infermieristica e un corso di italiano.
Ricordo che l’Italia e l’Europa rappresentavano ai vostri occhi la possibilità
di una svolta nella vostra professione e nelle vostre vite.
Ricordo anche che,
come tutti gli studenti, l’uso delle preposizioni italiane vi metteva in
difficoltà.
Per presentarvi, dicevate: “Sono nato a Kerala”. Io allora
spiegavo che la regola grammaticale vuole l’uso della proposizione “in + nome
dello stato” e “a + nome di città. Per questo si dice “Sono nato in Italia” e
“Sono nato a Roma”. Dato che il Kerala è uno stato (l’India è una
confederazione di stati, come gli Usa per capirci) si deve dire: “Sono nato in
Kerala, a Trivandrum”, come si dice “Sono nato in Colorado, a Boulder”.
Capirete il mio stupore e la mia tristezza, dopo
l’assassinio dei due pescatori Valentine Jalestine e Ajeesh Binki, colpiti da
colpi d’arma da fuoco provenienti dalla petroliera Enrica Lexie (è un dato di
fatto: le istituzioni italiane hanno già versato un indennizzo ai parenti delle
vittime in un accordo extra-giudiziario di cui si parla poco nel bel paese).
Dopo questo tragico episodio, all’improvviso gli italiani hanno scoperto
l’esistenza del vostro mare e hanno cominciato a dire: “Il nostro ambasciatore”
oppure “l’inviato del governo”… “è andato a Kerala”. L’hanno fatto tutti, da
chi allora era a capo del governo, ai direttori dei più prestigiosi
telegiornali.
_l’India;
_la grammatica italiana;
Probabilmente entrambe, direi.
Purtroppo però voi, ascoltando questi importanti
opinionisti, potreste pensare che devo aver sbagliato io. Che non ero un buon
insegnante. Perché io vi dico una cosa e quelli che contano mi contraddicono. E
poi in fondo sono solo un insegnante di italiano – anzi, un ex insegnante – e
probabilmente ho meno autorevolezza ai vostri occhi di un direttore di un Tg o
di un capo del governo.
Ma la realtà, cari studenti, è che la ragione se la prende
chi impugna un fucile o chi usa le parole come se fossero armi. Perché può
raccontare le cose come più gli conviene. Come quei fatti di cronaca definiti
eroici quando nella migliore delle ipotesi sono un tragico errore. Come le
preposizioni usate a caso.
Io però qualche consiglio linguistico ve lo do lo stesso.
Su aggettivi e pronomi possessivi: diffidate da chi eccede
nell’uso dei possessivi. “La nostra lingua”, “la nostra religione”, “i nostri
marò”, “la nostra patria”. Servono a alimentare un immaginario condiviso,
dietro costrutti identitari, per nascondere divisioni più importanti. Questa
retorica della condivisione è sempre più diffusa, in italiano. Come del resto
da voi. Ma prestate attenzione alla retorica. Guardate cosa c’è dietro. Si
parla di “uomini di mare” con un termine-ombrello che ha una denotazione troppo
ampia. Anche sul mare, non esistono solo “uomini di mare”. A un tiro di
schioppo, sul vostro mare pieno di pesce e di reti cinesi, si sono trovati
vicini inermi pescatori e soldati in funzione di contractor armati, che
rivendicano il diritto di sparare a difesa del petrolio e delle merci
occidentali. Quel petrolio maledetto che si paga in dollari e in vite umane.
Quegli “uomini di mare” tanto diversi, in realtà sono stati per un istante
uniti da una sola cosa: la traiettoria di un proiettile. Non si possono mettere
sotto uno stesso termine, “uomini di mare”, chi difendeva le merci occidentali
su rotte coloniali, guadagnando in un giorno quello che i vostri genitori guadagnano in un anno, e chi
è morto per portare il pane e il pesce sulla tavola dei propri figli. Non
fatevi ingannare dalla retorica degli “uomini di mare”. Voi conoscete l’opera
di Jack London e sapete che un mozzo non
è un capitano.
Un’altra parola controversa, che in classe non abbiamo mai
usato, è questa: “terrorista”. Ne capite il significato ma non comprendete il
campo di denotazione. Io sono più confuso di voi. Con buona ragione, le
autorità italiane si stanno battendo perché l’accusa di terrorismo non cada
sulle spalle dei due marò. Capisco il vostro stupore di fronte al fatto che in
Val di Susa quattro giovani no tav sono stati accusati da una procura italiana
dello stesso reato. Anche loro sono considerati terroristi, eppure non hanno
ucciso dei pescatori, ma pare che siano accusati del danneggiamento di un
compressore. Insomma, mi sembra che bisogna precisare meglio i campi di
denotazione e la profondità semantica di alcuni termini appartenenti al lessico
italiano, per non dare l’impressione che un compressore valga più della vita di
due pescatori indiani.
Avrei tante cose da dirvi, ma tante altre dovrei dirle ai
miei connazionali che si fanno bombardare da parole prive di idee nei
telegiornali. Parole che fanno gonfiare il petto ma svuotano la testa.
Informazione o propaganda? Comunicazione o rumore martellante che solletica le
emozioni più viscerali degli italiani? Espressioni ben composte
grammaticalmente che però rimandano a assurdità nel campo della referenza.
L’espressione “Pirati in Kerala”, ad esempio, grammaticalmente ben formata, ha
lo stesso valore delle “idee verdi senza colore che dormono furiosamente”, di
cui parlava un altro professore, ben più importante di me: Noam Chomsky. Perché
in Kerala i pirati compaiono solo sugli schermi dei vostri splendidi cinema. Ma
qui si entra nel campo della logica e il vostro teacher preferisce non
avventurarsi tanto al largo nel mare delle idee chiare e distinte. Non vorrei
che prendessero per pirata anche me.
A proposito: degli effetti linguistici di quegli spari ne
ho parlato sopra, di quelli pragmatici non ne vuole parlare nessuno. Jalestine
e Binki sono morti, dopo quegli spari. Quanti italiani si ricordano i loro
nomi? Se mai tornerò a farvi lezione, vi proporrò un’unità didattica con due
canzoni dedicate ai pescatori, una cantata da Fabrizio De André e l’altra da
Pierangelo Bertoli (lo so che vi annoiate con la musica italiana, ma che ci
posso fare?). Meritano di essere didattizzate, innanzitutto perché si prestano
per illustrare il modo imperativo e il tempo futuro, poi perché ogni volta che
le ascolto mi viene in mente una banalità: che un soldato può diventare un
eroe, ma un pescatore quando non torna a casa viene dimenticato.
Un ultimo punto. Quello della condanna. Che poi è
linguaggio anche quella, è un atto linguistico sia l’imputazione che la
sentenza, un atto linguistico con conseguenze pragmatiche. Qui si parla tanto
di condanne e pene. Io credo che il carcere, come la bacchetta dei professori
di un tempo, non serva a nulla e credo anche che le vite umane non si tolgono,
né con la corda né con il fucile. Immagino però che da qualche parte, in quelle
migliaia di pagine di epica e di leggende e nei film e nelle canzoni dei
pescatori del Kerala che avete invano cercato di insegnarmi – che pessimo
studente di malayalam sono stato… – ci deve essere la soluzione anche per
questa cosa dei marò, per uscirne bene oltre quel polverone sollevato dai media
e dalle retoriche nazionaliste, che rende tutto più avvilente e incomprensibile.
Nei panni di chi ha sparato dal ponte della petroliera Enrika Lexie, chiederei
di essere condannato a costruire asili per gli orfani del Kerala. E chiederei
che invece di comprare costosi bombardieri F35, il ministero della difesa
italiano usi una parte di quei soldi per costruire delle scuole in Kerala (non
“a Kerala”, cari ministri). E che invece
di spedire militari e diplomatici, l’Italia accolga degli infermieri del Kerala
nei propri ospedali e li paghi correttamente. E che i due paesi attivino dei programmi
di scambio tra studenti e delle borse di studio, pagati dal ministero italiano
della difesa, visto che nel paese di Marco Polo anche gli opinionisti della
televisione pensano che l’India sia un paese di fachiri (e io credo che voi in
Kerala non abbiate mai visto un fachiro, giusto?). E che i fucilieri che hanno
sparato contro i pescatori facciano la mattina il muratore e il pomeriggio
l’insegnante di italiano in una scuola del Kerala, che forse a quel punto in
omaggio ai “nostri insegnanti” il ministero si degnerà di riconoscere la
professionalità degli insegnanti di italiano LS/L2. Poi la pena continuerebbe
la sera: dopo aver mangiato un thali di riso sulle foglie di banano, che non
c’è niente più sano e gustoso, i nuovi professori diventerebbero studenti per
imparare la vostra lingua, il malayalam. Liberi di muoversi in Kerala e di
ricevere visite, dovrebbero vivere come i pescatori e conoscere l’uso delle
reti cinesi, che sorgono maestose a Kochi. Se vi sembra una pena leggera
mettersi nei panni di un muratore o di un insegnante, pensate che un militare
italiano in funzioni di contractor per un armatore privato sui vostri mari
guadagna 467 euro al giorno, un insegnante di italiano all’estero su un
progetto non ministeriale, a parità di latitudine, è pagato circa 40 euro al
giorno, mentre un pescatore o un muratore indiani vivono sotto la soglia della
povertà del vostro stesso paese, sudando per poche rupie dall’alba al tramonto.
La pena poi dovrebbe essere linguistica, ovvero
condizionata alla scrittura di una canzone in malayalam che parli dei frutti
del mango e del sorriso delle ragazze di Allepey. Una di quelle canzoni che,
costretto da voi, ballavo con poca maestria. Un giorno allora, dopo aver
imparato il malayalam al punto di saper scrivere una canzone con le parole
della lingua di Jalestine e Binki, quel debito con la terra dell’acqua e del
riso sarebbe estinto e chi ha sparato contro dei pescatori sulle acque del
Malabar sarebbe libero di tornare nel paese
dove è nato. O di rimanere, se fosse felice di quella nuova vita.
A patto di non cantare mai quella canzone a Sanremo.
Probabilmente queste mie parole risulteranno naif a voi e
poco patriottiche alle orecchie dei miei connazionali. Ma io non sono un
fuciliere né un diplomatico, non amo né le armi né le galere e leggo troppi
libri. Dico solo che da insegnante io il caso Jalestine e Binki, che qui –
ennesimo errore linguistico – chiamano “il caso marò”, l’avrei già risolto
così, da tempo.
Forse le cose andranno in un altro modo.
In ogni caso vi abbraccia il vostro insegnante di italiano,
vostro allievo di tante giornate indiane, che con queste righe si toglie un
rospo dalla gola (è una metafora, non prendetela alla lettera) e vi ricorda per
l’ennesima volta che non dovete alzarvi quando il prof entra in classe.
Alberto
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