Chernobyl, 28 anni dopo: dieci giorni trascorsi a Novoshepelychi, in
Ucraina, sottopongono un essere umano agli stessi livelli di radiazioni
che un abitante degli Stati Uniti riceve in un anno. “Questi livelli di
esposizione cronica sono al di sopra di quanto la maggior parte delle
specie potrebbe tollerare senza mostrare sintomi, sia in termini di
aspettativa di vita che di sviluppo di tumori oppure di mutazioni
genetiche e cataratta” spiega al NY Times Timothy Mousseau della University of South Carolina. Dal 2000 Mousseau e il suo team lavorano nell’ambito della Chernobyl Research Initiative,
un progetto di ricerca che ha come obiettivo quello di determinare gli
effetti a lungo termine delle radiazioni sull’ambiente, con un approccio
multidisciplinare.
L’ultimo studio della CRI, condotto su 16
specie di uccelli che vivono all’interno della zona di esclusione di
Chernobyl o molto vicino, ha destato particolare interesse (ne abbiamo
parlato qui).
Dalla ricerca è emerso infatti che gli uccelli, inizialmente
danneggiati dalle radiazioni, si stanno adattando e ora addirittura ne
traggono benefici. Ne abbiamo parlato con Andrea Bonisoli Alquati, biologo evoluzionista e co-autore dello studio, pubblicato su Functional Ecology.
Pensando
ai vostri studi meno recenti, in cui l’elevata contaminazione era
diretta responsabile delle ridotte popolazioni di uccelli, quest’ultima
ricerca è piuttosto sorprendente.
Ci sono due possibili spiegazioni che
permettono di armonizzare questi risultati con quelli ottenuti in
passato: la prima è che sia intervenuta negli uccelli una forma di
selezione per plasticità fenotipica,
che ha favorito la risposta fisiologica di alcuni individui in quanto
più rapida. La seconda è che sia in corso un vero e proprio adattamento
all’ambiente. Negli studi precedenti abbiamo dimostrato che in oltre 30
diverse specie le radiazioni hanno causato la riduzione delle dimensioni
dell’encefalo, oltre a una minore fertilità degli animali. Si tratta di
effetti che impongono sulle popolazioni una forte pressione selettiva e
si suppone portino alla sopravvivenza differenziale di quegli individui
che vi rispondono. Nell’ultimo studio abbiamo adottato per la prima
volta una metodologia di analisi statistica che consente di studiare i
dati del singolo animale, spostando il punto di osservazione dalla
specie all’individuo e permettendo così una più dettagliata valutazione
dei danni subiti.
A fronte di analisi così approfondite, possiamo dire che queste specie di uccelli si sono evolute in risposta all’ambiente?
Le osservazioni su cui si basa questo studio
non sono state condotte in modo continuativo per anni, non dimostrano
perciò evoluzione in senso stretto. Per poterlo affermare bisognerebbe
avere un “prima” e un “dopo” definiti, informazioni dettagliate sulle
basi genetiche: si tratta di elementi che non abbiamo indagato in modo
specifico. Possiamo ragionevolmente immaginare, in ogni caso, che ci
siano basi genetiche a regolare tutte le risposte fisiologiche
osservate: cambiamenti nella risposta suggeriscono cambiamenti nelle
frequenze dei geni sottostanti, ossia evoluzione.
Quali sono gli effetti delle radiazioni ionizzanti sugli animali?
La conseguenza principale è la formazione di
ROS, le specie reattive dell’ossigeno. Queste mediano poi gli effetti
deleteri delle radiazioni come il danno genetico e ne aumentano la
frequenza. Le ROS sono presenti nell’ambiente anche per ragioni
naturali, ma in questo caso si tratta di un aumento oltre i livelli che
possono essere neutralizzati dalle difese antiossidanti. Un’altra
misurazione che abbiamo fatto riguarda i livelli di glutatione, il
principale antiossidante cellulare, e il suo stato di ossidazione. La
riduzione delle dimensioni del cervello riscontrata in 30 specie è
dovuta anch’essa allo stress ossidativo, perché lo sviluppo del cervello
comporta una gran richiesta energetica e produce un eccesso di ROS (che
a causa delle radiazioni non vengono smaltite). Abbiamo anche
analizzato la concentrazione di feomelanina, un pigmento la cui
formazione richiede molti antiossidanti: gli individui che ne presentano
una maggior concentrazione, ad esempio per il pattern del piumaggio,
sono di conseguenza più esposti allo stress ossidativo. In ogni caso le
varie specie hanno diverse capacità di risposta e non sono esposte alle
radiazioni allo stesso modo. Gli individui che noi campioniamo e
studiamo sono, di fatto, quelli che hanno messo in atto una risposta
adattativa plastica e sono per questo sopravvissuti.
Spesso
la zona di esclusione viene presentata come una sorta di Eden
post-apocalittico, un’area dove la natura ha ripreso il controllo.
Non è così: quest’idea si è diffusa anche
perché fino al 2005/2006, con la pubblicazione dei primi censimenti a
opera di Mousseau e del collega Anders Pape Møller, non esisteva una
vera letteratura scientifica sull’ambiente di Chernobyl post-incidente.
Solamente osservazioni aneddotiche su lupi, alci, cicogne, citate nei
report ufficiali e che hanno contribuito a creare una visione della zona
molto distante dalla realtà. Il nostro presupposto è che le condizioni
dell’area ci permettono di usarla come “laboratorio semi-naturale”.
Siamo infatti in grado di condurre studi sui meccanismi di base del
comportamento e della fisiologia animale. Le aree contaminate sono
attigue ad altre rimaste “pulite” e permettono di campionare e
confrontare siti molto simili dal punto di vista ecologico, ma assai
diversi nel livello di radiazioni.
In un altro studio recente avete
analizzato invece l’influenza sull’ambiente della ridotta presenza
batterica: a fronte dei danni subiti dalle popolazioni di microbi, la
decomposizione del materiale organico è stata rallentata sensibilmente.
Dal punto di vista ecologico, essendo i
batteri alla base delle comunità naturali, i danni che subiscono
trascinano con sé conseguenze a cascata per tutte le altre popolazioni
che condividono lo stesso ambiente e fanno parte della loro rete
trofica. Il declino stesso di alcune specie di insetti potrebbe essere
dovuto ai danni subiti dai batteri. La lenta decomposizione del
materiale organico, inoltre, porta con sé ulteriori preoccupazioni: un
eventuale incendio mobiliterebbe tutto il materiale radioattivo. Nel
nostro gruppo di ricerca lavoriamo anche sulla neutralizzazione del
rischio, e la questione delle nubi tossiche è stata più volte sollevata:
quella che nasce come ricerca di base assume così risvolti utili per la
tutela della società stessa.
Parliamo della Fukushima Research Initiative: la situazione ecologica dei due ambienti è paragonabile?
Dal punto di vista fisiologico non abbiamo
ancora dati. Abbiamo analizzato alcune popolazioni di rondini (in
particolare i pulcini) senza riscontrare un aumento dei danni genetici.
Lo studio tuttavia non è definitivo e il campione è limitato ad aree
contaminate a livelli intermedi, senza spaziare fino ai livelli massimi
di contaminazione rinvenuti nella regione. Nonostante questo non ci sono
rondini nelle aree più contaminate e dopo i primi censimenti condotti a
Fukushima possiamo dire che, per quanto riguarda il decremento delle
specie, la situazione è parallela a Chernobyl. Il declino era simile
nelle due regioni, e per arrivare a questa conclusione abbiamo
campionato molte specie. Restringendo tuttavia il campione solamente
alle 14 specie comuni ai due habitat, ci siamo resi conto che il declino
era più marcato a Fukushima [gli esiti di questi studi sono stati
pubblicati in due paper, nel 2012 e nel 2013]. Abbiamo interpretato questo risultato come un’indicazione della possibilità che a Chernobyl fosse intervenuto un adattamento.
Fonte oggiscienza)
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