Le nuove concezioni della fisica moderna portano alla contraddizione
della percezione sensoriale aprendo a scenari rivoluzionari. Il mistero
dell’entanglement e del multiverso. L’esperienza virtuale di Second Life
di Giancarlo Barbadoro
Il mondo secondo la moderna rivoluzione scientifica
La ricerca scientifica moderna si sta spingendo oltre il modello
dell’universo così come è stato rappresentato fino ad ora. Le vecchie e
consolidate concezioni cosmologiche vengono superate dalla fisica
quantistica che affronta il mistero dell’esistenza attraverso sempre
nuove scoperte.
Anche se ancora oggi il cosiddetto “modello standard” della fisica
tende a dominare il campo della ricerca scientifica, si aprono
inaspettati ambiti di studio assolutamente non convenzionali
dell’universo sia da un punto di vista sensoriale che teoretico.
Uno di questi nuovi campi di ricerca cosmologica della fisica moderna
riguarda la natura reale dell’architettura dell’universo, che sempre
più spesso viene interpretato come un ente artificiale. Ovvero, non
tanto come il risultato di un processo naturale verificatosi sulla scala
cosmica dei fenomeni dell’esistenza, ma come un vero e proprio universo
creato in laboratorio da una intelligenza superiore o, come sostengono
alcuni ricercatori, realizzato da una civiltà evoluta che ha voluto dar
vita a un esperimento di laboratorio.
Oppure potremmo citare gli studi del team di ricercatori
dell’Università di Bonn, guidato dal professor Silas Beane, che sta
tentando di capire se viviamo effettivamente in un universo artificiale e
ha messo a punto uno specifico test che cerca di verificare se il mondo
che ci circonda sia o meno una simulazione artificiale creata da
un’intelligenza superiore. Un test che avrebbe rivelato, già dalle sue
prime applicazioni, la manifestazione a livello subatomico del
cosiddetto “Effetto GZK” che indicherebbe un preciso vincolo fisico
imputabile alla natura artificiale dell’universo.
La teoria dell’ “universo olografico”
Che il nostro universo possa essere il frutto di un esperimento di
laboratorio lo si potrebbe anche evincere dalla moderna teoria
cosmologica conosciuta con il termine di “universo olografico”.
Nel 2003 lo scienziato Jacob David Bekenstein, ricercatore in fisica
teoretica dell’Università Ebraica di Gerusalemme, è giunto a formulare
l’ipotesi che l’universo non sia realmente concreto come ci appare ma
sia solamente una rappresentazione olografica.
Questa tesi cosmologica risulterebbe supportata da altri ricercatori,
come David Bohm, fisico dell’Università di Londra mancato nel 1992,
secondo il quale la realtà percepita dai sensi non esiste. Anche per
questo fisico inglese, l’universo, nonostante la sua apparente solidità,
sarebbe in realtà un “fantasma” della mente, un gigantesco ologramma
meravigliosamente dettagliato in tutti i suoi fenomeni. Umanità
compresa.
Un buco nero è un oggetto celeste previsto dalla relatività
ristretta, che si forma quando una stella implode su se stessa
accrescendo la propria massa in uno spazio limitato. L’oggetto celeste a
questo punto inizia ad attrarre la materia circostante inglobando tutto
nella sua singolarità. Neppure un fascio di luce, nonostante la sua
peculiarità fenomenica, sarebbe in grado di uscire dal limite
dell’orizzonte degli eventi che rappresenta la superficie del buco nero.
In seguito, la scienza moderna ha dato origine a un’altra grandezza
fisica, identificata nel concetto di Informazione relativa ai bit
informatici. In tal modo si è giunti a constatare che il limite di
informazione che può essere contenuta da un oggetto non è determinato
dal suo volume, ma è legato alla sua superficie.
Constatazione che è stata utilizzata per definire meglio il concetto
di entropia applicato ai buchi neri. Applicando questo principio alle
caratteristiche del comportamento dei buchi neri si è visto che questi
corpi celesti non avrebbero potuto contenere tutta la materia che in
apparenza potrebbero divorare. Ovvero che in un buco nero non può
entrare materia all’infinito, più di quanta possa contenerne la
superficie dell’orizzonte degli eventi.
In definitiva, l’architettura funzionale dei buchi neri non sembra
funzionare come in apparenza dovrebbe secondo le precedenti teorie
astrofisiche, rivelando il fenomeno di una realtà che, all’analisi dei
fatti, non corrisponde ai modelli fisici che possono essere ideati
seguendo il luogo comune dell’osservazione scientifica fino ad ora
seguita.
Per comprendere quanto ha rivelato la funzione strutturale effettiva
dei buchi neri e quindi la scoperta di una possibile illusione
sensoriale che abbiamo dell’universo, possiamo rivolgerci alla
tecnologia della proiezione olografica e delle caratteristiche degli
ologrammi.
L’oggetto olografico ordinario che viene mostrato in una qualsiasi
proiezione olografica non è un oggetto reale, né tridimensionale come
appare, ma è solamente un “fantasma” prodotto dalla proiezione di un
fascio di luce laser. Un oggetto che appare di natura tridimensionale,
ma che nasce dall’immagine bidimensionale che è impressa sul supporto
piatto della pellicola olografica.
La tridimensionalità dell’oggetto olografico che viene proiettato è
solamente una illusione percepita dagli spettatori che si convincono di
trovarsi di fronte a un oggetto solido e reale.
Se, per ipotesi, ci si dovesse mettere a contare i pixel contenuti
dall’immagine tridimensionale di un cubo, valutando tutte le facce che
si evidenziano, ci si troverebbe di fronte al paradosso di ottenere un
inevitabile risultato inferiore al previsto. I pixel sarebbero sempre
inevitabilmente quelli contenuti nell’immagine piatta di sorgente che
viene proiettata.
Ovvero, dei bit rilevabili su un ologramma sarà sempre dipendente dal limite
posto dal supporto olografico bidimensionale sul quale c’è l’immagine a
due dimensioni che determina la percezione tridimensionale.
Nella realizzazione di un ologramma è necessario avere un laser come
sorgente di luce. Il laser ha la caratteristica di emettere un fascio di
luce in cui tutte le singole parti del fascio vibrano in sincrono e
quindi mantengono una determinata coordinazione nella lunghezza d’onda.
Quando diverse parti del fascio di luce, che si muovono in sincrono,
incontrano un oggetto tridimensionale, vengono riflesse in momenti
diversi, in questo modo recano anche informazioni sulla distanza oltre
che sul colore e sulla forma.
Il risultato di questo complesso procedimento è che partendo da una
immagine bidimensionale impressa sul supporto piatto della pellicola
olografica viene realizzata la proiezione di una immagine che risulta
per gli spettatori totalmente tridimensionale.
L’illusione olografica dell’universo
Un buco nero, secondo i modelli cosmologici precedenti, sarebbe stato
in grado di divorare all’infinito tutto quanto lo circonda, ma in
realtà è stato constatato che non è così. Non può incamerare e contenere
bit di informazione più di quanti ne possa racchiudere la sua intera
superficie.
La quantità di informazione trattenuta in un buco nero risulta essere
infatti quella della sua superficie e non del suo volume come
risulterebbe dalla nostra esperienza cognitiva ordinaria.
Proprio come si evince riferendoci all’immagine olografica di un
cubo. Si potrebbe dire che il numero di pixel che lo costituiscono è
rapportabile al suo volume, ma in realtà la conta mostrerebbe i soli
pixel che formano la sua immagine bidimensionale che è disegnata sul
piatto supporto olografico.
Questo significa che, come per i buchi neri, anche il resto
dell’universo, percepito attraverso il luogo comune determinato dai
sensi, non è reale, ma rappresenta una raffigurazione olografica che ha
origine da una immagine bidimensionale posta su un qualche supporto
piatto che si trova da qualche parte e che viene proiettata
dall’equivalente di un fascio laser.
Secondo la tesi di Bekenstein l’universo sarebbe quindi una
rappresentazione olografica con una architettura ben diversa dal mondo
conosciuto attraverso i sensi e l’osservazione concettuale. L’universo,
come un qualsiasi ologramma, sarebbe quindi il riflesso olografico di
una matrice posta lontana nello spazio che riflette leggi ed esperienze
che sono in origine bidimensionali.
Se la tesi di Bekenstein risultasse effettiva, in questo caso non
esisterebbe lo spazio tridimensionale in cui siamo abituati a vivere, ma
saremmo in realtà delle entità bidimensionali assolutamente piatte che
si muovono su una superficie altrettanto piatta, illusi dalle proprietà
funzionali del nostro cervello che crea dentro di sé la virtualità di un
mondo apparentemente tridimensionale.
Il fisico Craig Hogan del Fermilab di Chicago ha detto in proposito:
“È come se il GEO600 fosse stato colpito dalle microscopiche convulsioni
quantistiche dello spazio-tempo”.
Attualmente, presso il Fermilab, un interferometro olografico, detto
Olometro, si sta addentrando nella dimensione del “rumore quantico” su
scale più definite di quelle dell’esperimento GEO600. Le sue rilevazioni
potrebbero rivoluzionare definitivamente il nostro luogo comune sulla
conoscenza dell’universo.
Entanglement e multiverso
La constatazione dell’esistenza di una sola “lastra olografica”
cosmica da cui avrebbe origine l’immagine olografica dell’universo che
rappresenta il teatro della nostra esistenza potrebbe spiegare, secondo
Bohm, il fenomeno dell’entanglement. Questa particolare proprietà
comporta che tutte le particelle della materia siano sempre
istantaneamente relazionate tra di loro manifestando una comune
informazione. Un aspetto dell’architettura dell’universo che venne
ampiamente dimostrato nel 1982 da un’équipe di ricerca dell’Università
di Parigi, diretta dal fisico Alain Aspect, che rilevò la realtà del
fenomeno dell’entanglement osservando come le particelle della materia
dell’universo siano relazionate tra di loro tanto da trattenere una
identica e istantanea informazione della loro intrinseca natura.
L’idea di Bohm comporta la constatazione che se ogni aspetto
dell’universo proviene da una unica fonte, allora tutto è
inevitabilmente collegato a tutto. Non esisterebbe neppure più
l’ordinaria distinzione di presente, passato e futuro che invece si
troverebbero a coesistere tutti assieme sulla stessa lastra olografica
cosmica.
L’esistenza di questa lastra olografica, posta ai confini
dell’esistenza, come unica fonte della proiezione olografica
dell’universo, potrebbe giungere a spiegare anche la teoria del
multiverso secondo la quale esisterebbero dimensioni diverse e parallele
nello stesso universo in cui viviamo.
Forse risalendo alla “matrice olografica” cosmica da cui scaturisce
la proiezione olografica dell’universo, un giorno la scienza potrebbe
consentire di saltare da un universo all’altro del multiverso per vedere
come sono fatti gli altri universi contenuti nella stessa matrice
olografica.
L’esperienza di Second Life
Se la teoria dell’universo olografico si dimostrasse esatta,
l’universo si rivelerebbe una struttura artificiale ideata da qualche
entità evoluta che ha creato una sorta di videogioco, realizzato con
l’impiego di minori mezzi possibili ma funzionali allo scopo, in cui
sperimentare la vita intelligente, oppure per dare modo che essa potesse
comparire come se, in questo caso, l’universo fosse un grande utero
artificiale.
Come ipotizza Bekenstein, nell’universo olografico ci troveremmo a
vivere una realtà bidimensionale che il nostro cervello interpreterebbe
come una dimensione apparentemente tridimensionale.
Saremmo né più e né meno come degli omini di un videogioco che vivono
la dimensionalità offerta dallo schermo piatto del monitor ma
condizionati, da un preciso software che agisce sul loro sistema
cerebrale, a vivere come se si trattasse di un mondo effettivo e
tridimensionale in cui muoversi e interpretare i ruoli previsti dal
videogioco.
L’esperienza di una esistenza vissuta in un possibile universo
olografico la possiamo verificare in maniera concreta prendendo a
riferimento il mondo virtuale di “Second Life”, realizzato dalla Linden
Lab americana, in cui viene simulata la dimensione spazio-temporale del
“mondo primario” in cui viviamo.
Second Life non è un gioco, nonostante lo possa sembrare a una prima
impressione, ma rappresenta un vero e proprio strumento mediatico di
comunicazione globale, nuovo e rivoluzionario, che abbraccia l’intero
pianeta.
Quella di Second Life è una dimensione virtuale che esiste attraverso
un’architettura digitalizzata creata con l’impiego di numerosi server
collegati tra di loro e operanti con un identico software.
Un’architettura virtuale che consente agli utenti di potervi entrare da
ogni parte del pianeta e muoversi dentro ad essa a loro piacere.
Quando ci si collega a questo mondo virtuale attraverso il proprio
computer, lo si vede “rezzarsi”, ovvero prendere forma fino ad
affacciarsi sullo schermo del monitor.
L’immagine che appare, costituita dai pixel dello schermo, è
inevitabilmente piatta così come lo è lo schermo del monitor. Tuttavia
le prospettive della spazialità tridimensionale che sono rese dal
software della Linden Lab portano immediatamente il cervello ad
adattarsi alla sensazione di affacciarsi a una finestra da cui si guarda
a un vero mondo tridimensionale.
Ed è così che all’esperienza umana risulta possibile entrare a far
parte della dimensione virtuale di Second Life utilizzando il proprio
“avatar”, la simulazione digitalizzata dell’utente, che porta a
inoltrarsi in un vero e proprio mondo alternativo costituito da pianure e
montagne, muovendosi nelle vie di città e navigando su vasti mari.
un po’ l’impressione personale è proprio quella di essere in una
situazione effettivamente tridimensionale, dimenticando che si sta
guardando la superficie piatta dello schermo del monitor.
Non solo, ma la spazialità tridimensionale che ci offre il sistema
virtuale consente agli avatar di costruire oggetti e di operare in varie
altre cose, oppure di intrattenere rapporti “reali” con altri avatar.
Sempre pilotando il tutto dalla tastiera e con il mouse.
Se facciamo un parallelismo tra l’esperienza sviluppabile nel mondo
di Second Life e quella dell’universo olografico in cui secondo
Bekenstein ci troveremmo a vivere, ci viene facile considerare come la
lastra olografica della teoria cosmologica assomigli alla piattaforma di
software della Linden Lab e come il computer che la raccoglie e la
elabora nell’immagine piatta dello schermo non sia altro che il nostro
cervello che interpreta la proiezione olografica e la trasforma nel
mondo tridimensionale in cui siamo abituati a vivere.
È un parallelismo impressionante che porta ad acquisire un’esperienza
diretta di quello che si può intendere per universo olografico.
Se la teoria di Bekenstein è vera, forse ci può consolare l’idea che
noi e l’universo non siamo stati proprio inventati di sana pianta.
Ovvero che le entità evolute abbiano impiegato, così come ha fatto la
Linden Lab, per ottenere l’aspetto dell’esistenza olografica in cui
viviamo, gli elementi di riferimento di un effettivo mondo reale che
comunque, da qualche altra parte oltre lo schermo interiore della nostra
mente, esiste per davvero.
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