sabato 19 luglio 2014

VIVIAMO in un OLOGRAMMA


Le nuove concezioni della fisica moderna portano alla contraddizione della percezione sensoriale aprendo a scenari rivoluzionari. Il mistero dell’entanglement e del multiverso. L’esperienza virtuale di Second Life
di Giancarlo Barbadoro
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Il mondo secondo la moderna rivoluzione scientifica
La ricerca scientifica moderna si sta spingendo oltre il modello dell’universo così come è stato rappresentato fino ad ora. Le vecchie e consolidate concezioni cosmologiche vengono superate dalla fisica quantistica che affronta il mistero dell’esistenza attraverso sempre nuove scoperte.
Anche se ancora oggi il cosiddetto “modello standard” della fisica tende a dominare il campo della ricerca scientifica, si aprono inaspettati ambiti di studio assolutamente non convenzionali dell’universo sia da un punto di vista sensoriale che teoretico.
Uno di questi nuovi campi di ricerca cosmologica della fisica moderna riguarda la natura reale dell’architettura dell’universo, che sempre più spesso viene interpretato come un ente artificiale. Ovvero, non tanto come il risultato di un processo naturale verificatosi sulla scala cosmica dei fenomeni dell’esistenza, ma come un vero e proprio universo creato in laboratorio da una intelligenza superiore o, come sostengono alcuni ricercatori, realizzato da una civiltà evoluta che ha voluto dar vita a un esperimento di laboratorio.

In merito a questa tendenza di visione cosmologica, possiamo citare il caso della “Calling Card of God”, il “biglietto da visita del Creatore”, che riguarda la ricerca attuata da esperti del MIT americano, il Massachusetts Institute of Technology , e altri ricercatori internazionali su un presunto testo in codice binario osservato nella fluttuazione termica della radiazione fossile del Big Bang, testo che è stato considerato come un messaggio lasciato dai “costruttori” dell’universo per le civiltà più evolute che fossero pervenute a poterlo rilevare.
Oppure potremmo citare gli studi del team di ricercatori dell’Università di Bonn, guidato dal professor Silas Beane, che sta tentando di capire se viviamo effettivamente in un universo artificiale e ha messo a punto uno specifico test che cerca di verificare se il mondo che ci circonda sia o meno una simulazione artificiale creata da un’intelligenza superiore. Un test che avrebbe rivelato, già dalle sue prime applicazioni, la manifestazione a livello subatomico del cosiddetto “Effetto GZK” che indicherebbe un preciso vincolo fisico imputabile alla natura artificiale dell’universo.
La teoria dell’ “universo olografico”
Che il nostro universo possa essere il frutto di un esperimento di laboratorio lo si potrebbe anche evincere dalla moderna teoria cosmologica conosciuta con il termine di “universo olografico”.
Nel 2003 lo scienziato Jacob David Bekenstein, ricercatore in fisica teoretica dell’Università Ebraica di Gerusalemme, è giunto a formulare l’ipotesi che l’universo non sia realmente concreto come ci appare ma sia solamente una rappresentazione olografica.
Questa tesi cosmologica risulterebbe supportata da altri ricercatori, come David Bohm, fisico dell’Università di Londra mancato nel 1992, secondo il quale la realtà percepita dai sensi non esiste. Anche per questo fisico inglese, l’universo, nonostante la sua apparente solidità, sarebbe in realtà un “fantasma” della mente, un gigantesco ologramma meravigliosamente dettagliato in tutti i suoi fenomeni. Umanità compresa.

La teoria cosmologica dell’universo olografico prende origine dallo studio sul comportamento fisico dei buchi neri, che ha messo in evidenza incongruenze strutturali dell’universo così come lo conosciamo e immaginiamo.
Un buco nero è un oggetto celeste previsto dalla relatività ristretta, che si forma quando una stella implode su se stessa accrescendo la propria massa in uno spazio limitato. L’oggetto celeste a questo punto inizia ad attrarre la materia circostante inglobando tutto nella sua singolarità. Neppure un fascio di luce, nonostante la sua peculiarità fenomenica, sarebbe in grado di uscire dal limite dell’orizzonte degli eventi che rappresenta la superficie del buco nero.
In seguito, la scienza moderna ha dato origine a un’altra grandezza fisica, identificata nel concetto di Informazione relativa ai bit informatici. In tal modo si è giunti a constatare che il limite di informazione che può essere contenuta da un oggetto non è determinato dal suo volume, ma è legato alla sua superficie.
Constatazione che è stata utilizzata per definire meglio il concetto di entropia applicato ai buchi neri. Applicando questo principio alle caratteristiche del comportamento dei buchi neri si è visto che questi corpi celesti non avrebbero potuto contenere tutta la materia che in apparenza potrebbero divorare. Ovvero che in un buco nero non può entrare materia all’infinito, più di quanta possa contenerne la superficie dell’orizzonte degli eventi.
In definitiva, l’architettura funzionale dei buchi neri non sembra funzionare come in apparenza dovrebbe secondo le precedenti teorie astrofisiche, rivelando il fenomeno di una realtà che, all’analisi dei fatti, non corrisponde ai modelli fisici che possono essere ideati seguendo il luogo comune dell’osservazione scientifica fino ad ora seguita.
Per comprendere quanto ha rivelato la funzione strutturale effettiva dei buchi neri e quindi la scoperta di una possibile illusione sensoriale che abbiamo dell’universo, possiamo rivolgerci alla tecnologia della proiezione olografica e delle caratteristiche degli ologrammi.
L’oggetto olografico ordinario che viene mostrato in una qualsiasi proiezione olografica non è un oggetto reale, né tridimensionale come appare, ma è solamente un “fantasma” prodotto dalla proiezione di un fascio di luce laser. Un oggetto che appare di natura tridimensionale, ma che nasce dall’immagine bidimensionale che è impressa sul supporto piatto della pellicola olografica.

La tridimensionalità dell’oggetto olografico che viene proiettato è solamente una illusione percepita dagli spettatori che si convincono di trovarsi di fronte a un oggetto solido e reale.
Se, per ipotesi, ci si dovesse mettere a contare i pixel contenuti dall’immagine tridimensionale di un cubo, valutando tutte le facce che si evidenziano, ci si troverebbe di fronte al paradosso di ottenere un inevitabile risultato inferiore al previsto. I pixel sarebbero sempre inevitabilmente quelli contenuti nell’immagine piatta di sorgente che viene proiettata.
Ovvero, dei bit rilevabili su un ologramma sarà sempre dipendente dal limite posto dal supporto olografico bidimensionale sul quale c’è l’immagine a due dimensioni che determina la percezione tridimensionale.

La realizzazione di una proiezione olografica è complessa. Per effettuarla occorre registrare la forma dell’oggetto e la distanza delle varie parti dell’oggetto dal supporto in modo che, durante la fase di riproduzione, si possa ricreare l’immagine apparentemente tridimensionale dell’oggetto stesso.
Nella realizzazione di un ologramma è necessario avere un laser come sorgente di luce. Il laser ha la caratteristica di emettere un fascio di luce in cui tutte le singole parti del fascio vibrano in sincrono e quindi mantengono una determinata coordinazione nella lunghezza d’onda. Quando diverse parti del fascio di luce, che si muovono in sincrono, incontrano un oggetto tridimensionale, vengono riflesse in momenti diversi, in questo modo recano anche informazioni sulla distanza oltre che sul colore e sulla forma.
Il risultato di questo complesso procedimento è che partendo da una immagine bidimensionale impressa sul supporto piatto della pellicola olografica viene realizzata la proiezione di una immagine che risulta per gli spettatori totalmente tridimensionale.
L’illusione olografica dell’universo
Un buco nero, secondo i modelli cosmologici precedenti, sarebbe stato in grado di divorare all’infinito tutto quanto lo circonda, ma in realtà è stato constatato che non è così. Non può incamerare e contenere bit di informazione più di quanti ne possa racchiudere la sua intera superficie.
La quantità di informazione trattenuta in un buco nero risulta essere infatti quella della sua superficie e non del suo volume come risulterebbe dalla nostra esperienza cognitiva ordinaria.
Proprio come si evince riferendoci all’immagine olografica di un cubo. Si potrebbe dire che il numero di pixel che lo costituiscono è rapportabile al suo volume, ma in realtà la conta mostrerebbe i soli pixel che formano la sua immagine bidimensionale che è disegnata sul piatto supporto olografico.

La stessa cosa che accade nella moderna osservazione del comportamento fenomenico dei buchi neri, che porta a considerare che questi corpi celesti non possono contenere i bit di Informazione in una dimensione volumetrica, ma solamente secondo la loro superficie. Ovvero che i buchi neri sono l’effetto di una possibile proiezione olografica.
Questo significa che, come per i buchi neri, anche il resto dell’universo, percepito attraverso il luogo comune determinato dai sensi, non è reale, ma rappresenta una raffigurazione olografica che ha origine da una immagine bidimensionale posta su un qualche supporto piatto che si trova da qualche parte e che viene proiettata dall’equivalente di un fascio laser.
Secondo la tesi di Bekenstein l’universo sarebbe quindi una rappresentazione olografica con una architettura ben diversa dal mondo conosciuto attraverso i sensi e l’osservazione concettuale. L’universo, come un qualsiasi ologramma, sarebbe quindi il riflesso olografico di una matrice posta lontana nello spazio che riflette leggi ed esperienze che sono in origine bidimensionali.
Se la tesi di Bekenstein risultasse effettiva, in questo caso non esisterebbe lo spazio tridimensionale in cui siamo abituati a vivere, ma saremmo in realtà delle entità bidimensionali assolutamente piatte che si muovono su una superficie altrettanto piatta, illusi dalle proprietà funzionali del nostro cervello che crea dentro di sé la virtualità di un mondo apparentemente tridimensionale.

Nel 2009 a Sarstedt, in Germania, per mezzo del GEO600, una struttura deputata a rilevare le onde gravitazionali emesse dalle stelle morenti che esplodono, vennero rilevate delle increspature anomale che non potevano essere attribuite a fenomeni celesti, sotto forma di una sorta di “rumore quantico” che secondo i fisici poteva essere prodotto proprio dalla struttura dell’universo olografico.
Il fisico Craig Hogan del Fermilab di Chicago ha detto in proposito: “È come se il GEO600 fosse stato colpito dalle microscopiche convulsioni quantistiche dello spazio-tempo”.
Attualmente, presso il Fermilab, un interferometro olografico, detto Olometro, si sta addentrando nella dimensione del “rumore quantico” su scale più definite di quelle dell’esperimento GEO600. Le sue rilevazioni potrebbero rivoluzionare definitivamente il nostro luogo comune sulla conoscenza dell’universo.
Entanglement e multiverso
La constatazione dell’esistenza di una sola “lastra olografica” cosmica da cui avrebbe origine l’immagine olografica dell’universo che rappresenta il teatro della nostra esistenza potrebbe spiegare, secondo Bohm, il fenomeno dell’entanglement. Questa particolare proprietà comporta che tutte le particelle della materia siano sempre istantaneamente relazionate tra di loro manifestando una comune informazione. Un aspetto dell’architettura dell’universo che venne ampiamente dimostrato nel 1982 da un’équipe di ricerca dell’Università di Parigi, diretta dal fisico Alain Aspect, che rilevò la realtà del fenomeno dell’entanglement osservando come le particelle della materia dell’universo siano relazionate tra di loro tanto da trattenere una identica e istantanea informazione della loro intrinseca natura.
L’idea di Bohm comporta la constatazione che se ogni aspetto dell’universo proviene da una unica fonte, allora tutto è inevitabilmente collegato a tutto. Non esisterebbe neppure più l’ordinaria distinzione di presente, passato e futuro che invece si troverebbero a coesistere tutti assieme sulla stessa lastra olografica cosmica.
L’esistenza di questa lastra olografica, posta ai confini dell’esistenza, come unica fonte della proiezione olografica dell’universo, potrebbe giungere a spiegare anche la teoria del multiverso secondo la quale esisterebbero dimensioni diverse e parallele nello stesso universo in cui viviamo.

In effetti, se prendiamo ad esempio il comportamento degli ologrammi ordinari, possiamo constatare come sulla stessa pellicola olografica possano essere messe una serie infinita di altre immagini che riproducono altrettanti ologrammi senza che interferiscano tra di loro. Dall’interno di ciascun ologramma, se fossimo realmente in un universo olografico, non potremmo vedere le altre rappresentazioni.
Forse risalendo alla “matrice olografica” cosmica da cui scaturisce la proiezione olografica dell’universo, un giorno la scienza potrebbe consentire di saltare da un universo all’altro del multiverso per vedere come sono fatti gli altri universi contenuti nella stessa matrice olografica.
L’esperienza di Second Life
Se la teoria dell’universo olografico si dimostrasse esatta, l’universo si rivelerebbe una struttura artificiale ideata da qualche entità evoluta che ha creato una sorta di videogioco, realizzato con l’impiego di minori mezzi possibili ma funzionali allo scopo, in cui sperimentare la vita intelligente, oppure per dare modo che essa potesse comparire come se, in questo caso, l’universo fosse un grande utero artificiale.
Come ipotizza Bekenstein, nell’universo olografico ci troveremmo a vivere una realtà bidimensionale che il nostro cervello interpreterebbe come una dimensione apparentemente tridimensionale.
Saremmo né più e né meno come degli omini di un videogioco che vivono la dimensionalità offerta dallo schermo piatto del monitor ma condizionati, da un preciso software che agisce sul loro sistema cerebrale, a vivere come se si trattasse di un mondo effettivo e tridimensionale in cui muoversi e interpretare i ruoli previsti dal videogioco.
L’esperienza di una esistenza vissuta in un possibile universo olografico la possiamo verificare in maniera concreta prendendo a riferimento il mondo virtuale di “Second Life”, realizzato dalla Linden Lab americana, in cui viene simulata la dimensione spazio-temporale del “mondo primario” in cui viviamo.
Second Life non è un gioco, nonostante lo possa sembrare a una prima impressione, ma rappresenta un vero e proprio strumento mediatico di comunicazione globale, nuovo e rivoluzionario, che abbraccia l’intero pianeta.
Quella di Second Life è una dimensione virtuale che esiste attraverso un’architettura digitalizzata creata con l’impiego di numerosi server collegati tra di loro e operanti con un identico software. Un’architettura virtuale che consente agli utenti di potervi entrare da ogni parte del pianeta e muoversi dentro ad essa a loro piacere.
Quando ci si collega a questo mondo virtuale attraverso il proprio computer, lo si vede “rezzarsi”, ovvero prendere forma fino ad affacciarsi sullo schermo del monitor.
L’immagine che appare, costituita dai pixel dello schermo, è inevitabilmente piatta così come lo è lo schermo del monitor. Tuttavia le prospettive della spazialità tridimensionale che sono rese dal software della Linden Lab portano immediatamente il cervello ad adattarsi alla sensazione di affacciarsi a una finestra da cui si guarda a un vero mondo tridimensionale.
Ed è così che all’esperienza umana risulta possibile entrare a far parte della dimensione virtuale di Second Life utilizzando il proprio “avatar”, la simulazione digitalizzata dell’utente, che porta a inoltrarsi in un vero e proprio mondo alternativo costituito da pianure e montagne, muovendosi nelle vie di città e navigando su vasti mari.
un po’ l’impressione personale è proprio quella di essere in una situazione effettivamente tridimensionale, dimenticando che si sta guardando la superficie piatta dello schermo del monitor.
Non solo, ma la spazialità tridimensionale che ci offre il sistema virtuale consente agli avatar di costruire oggetti e di operare in varie altre cose, oppure di intrattenere rapporti “reali” con altri avatar. Sempre pilotando il tutto dalla tastiera e con il mouse.
Se facciamo un parallelismo tra l’esperienza sviluppabile nel mondo di Second Life e quella dell’universo olografico in cui secondo Bekenstein ci troveremmo a vivere, ci viene facile considerare come la lastra olografica della teoria cosmologica assomigli alla piattaforma di software della Linden Lab e come il computer che la raccoglie e la elabora nell’immagine piatta dello schermo non sia altro che il nostro cervello che interpreta la proiezione olografica e la trasforma nel mondo tridimensionale in cui siamo abituati a vivere.
È un parallelismo impressionante che porta ad acquisire un’esperienza diretta di quello che si può intendere per universo olografico.
Se la teoria di Bekenstein è vera, forse ci può consolare l’idea che noi e l’universo non siamo stati proprio inventati di sana pianta. Ovvero che le entità evolute abbiano impiegato, così come ha fatto la Linden Lab, per ottenere l’aspetto dell’esistenza olografica in cui viviamo, gli elementi di riferimento di un effettivo mondo reale che comunque, da qualche altra parte oltre lo schermo interiore della nostra mente, esiste per davvero.

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