lunedì 3 febbraio 2014

DIRIGENTE DI VERTICE DEL CONSIGLIO DI STATO: ”ECCO COME FAR USCIRE L’ITALIA DA EURO FISCAL COMPACT E MES” (ECCEZIONALE!)

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Luciano Barra Caracciolo è Presidente di sezione del Consiglio di Stato, Rappresentante italiano presso la rete UE degli organi di autogoverno del potere giudiziario, curatore del blog Orizzonte 48 ed Autore di “Euro e (o?) democrazia costituzionale. La convivenza impossibile tra costituzione e trattati europei”.
In sostanza, il dottor Luciano Barra Caracciolo è un dirigente di vertice dello Stato italiano. Ed ha rilasciato una straordinaria intervista nella quale spiega come fare a uscire dall’euro senza disastri e a norma di legge, di tutte le leggi e le convenzioni firmate dall’Italia in sede europea. 
Dottor Caracciolo, nel suo libro lei arriva ad affermare come la convivenza tra i Trattati europei e la Costituzione italiana sia impossibile. Come e chi potrebbe sanare questa frattura?
“Basterebbe riproporre il significato vero della Costituzione come originariamente concepita. Non a caso io nel mio libro riporto brani tratti dalle sedute della “Costituente”, i relativi dibattiti, cioè la fonte diretta e l’interpretazione autentica di quelle che erano le intenzioni dei Costituenti. Il problema, se ragioniamo sul dover essere, cioè sulla restaurazione di un minimo di legalità costituzionale, è un altro: ma i partiti lo vogliono fare? Si pongono questi problemi?

Se inizieranno a farlo, il corretto intendimento della Costituzione è di per sé uno strumento potentissimo. Nel libro propongo due cose: in primo luogo dimostro come la Corte costituzionale attraverso la lezione della Costituente potrebbe dichiarare costituzionalmente illegittimo il vincolo dei trattati, cioè la stessa ratifica. In secondo luogo, propongo una road map che non ha nulla di eversivo, ma è una ricalibratura dei pubblici poteri, cioè delle istituzioni democratiche sulle prescrizioni della Costituzione. Sia la liberazione dal vincolo esterno che la ricorrezione dei suoi effetti sulle istituzioni democratiche passa per lo strumento della legalità suprema, la Costituzione, e nulla è più illegale di quello che genera uno stato di sospensione sine die di questa, vale a dire i trattati europei. Basterebbe ripristinare la legalità costituzionale ed automaticamente avremo la via d’uscita progressiva da questo stato di cose.
Si discute molto sulla questione giuridica del recesso dall’Unione Monetaria. Come potrebbe farlo tecnicamente l’Italia?
In una prima fase avevo ipotizzato che si potesse ritornare ad un’idea sobria dei trattati, qualificandoli come fonti pattizie e quindi applicando la Convenzione di Vienna. Questa, nei suoi principi generali, è considerata una raccolta ricognitiva di diritto consuetudinario ed in alcune sue parti espressione di ius cogens – vale a dire superiore per rango a qualunque altra norma pattizia o generale – e tra quest’ultimi principi internazionali inderogabili (da un qualsiasi trattato) rientra sicuramente il principio dell’impossibilità del vincolo predatorio negoziale,  vale a dire del vincolo irreversibile e senza limiti di tempo alla partecipazione ad un trattato, a prescindere dal manifestarsi di suoi effetti manifestamente contrari alla convenienza di una parte e favorevoli soltanto all’altra (rebus sic stantibus). Su questo sfondo avevo inizialmente ipotizzato una prima via d’uscita possibile.
Ma, sempre con una visione attenta allo jus gentium, si può tranquillamente interpretare le stesse clausole dei trattati: in particolare mi concentro sugli articoli 139 e 140 del TFUE, formulando la teoria del contrarius actus. Dato che la procedura di ammissione all’euro configura l’ammissione medesima come atto ampliativo,  la disciplina  contenuta in tali norme richiede la  manifestazione di consenso dello Stato considerato in ogni fase procedurale. Questo consenso, quindi, è un elemento costitutivo indispensabile dell’ammissione e  potrà essere ritirato in qualsiasi momento in applicazione del principio della insopprimibile libertà del consenso nel diritto internazionale. Per comprendere meglio, basta fare l’esempio degli atti ampliativi del diritto pubblico interno come una licenza a vendere alcolici, che non prefigura un obbligo alla vendita e può essere sempre restituita.
Questo è un principio generale pacifico, risalente al diritto internazionale generale,  nonché ai principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei trattati, interpretati secondo i principi giuridici generali delle nazioni civili. Non esiste quindi un vincolo irreversibile e non è configurato come tale dalle norme se lette in buona fede, intesa come vincolo normativo di jus cogens. E, di conseguenza, la strategia che suggerisco è quella di un recesso secco, senza alcun tipo di giustificazione. Le norme che implicano un beneficio, nello stesso modo prevedono la possibilità di restituzione del “titolo” di quel beneficio.
Questo recesso dall’euro influenzerebbe in qualche modo la partecipazione dell’Italia all’Unione Europea?
Basandosi sugli art. 139 e 140,  è perfettamente logico e naturale che lo stato che decida di rinunciare al beneficio della partecipazione nell’euro rimanga nella stessa condizione degli altri paesi “con deroga”, come ad esempio il Regno Unito o la Svezia. Permangono cioè all’interno dell’Unione europea per tutte le norme specifiche che non riguardano la partecipazione ed adesione all’unione monetaria. Lo Stato “uscente”  recupererebbe una condizione prevista dai Trattati, già tipizzata dai Trattati e che soprattutto non è transitoria: questo perchè non c’è un obbligo correlato ad un termine legale per l’adesione all’Unione monetaria, né l’Unione europea vede come suo elemento costitutivo della sua soggettività politica la partecipazione generalizzata all’unione monetaria. E questo è dimostrato dalla lettura degli art. 3 par. 3 del Tue in cui si descrive lo schema programmatico socio-economico dell’Ue, insieme al par.4,  da cui emerge con chiarezza che l’Ue è un soggetto già nella sua pienezza nel momento in cui programma di istituire l’unione monetaria. Dalla loro corretta interpretazione si comprende come il programma economico-monetario non sia costitutivo della sua soggettività di diritto internazionale.
Che cosa accadrebbe però a tutti quei trattati intergovernativi come il Mes ed il Fiscal Compact? Resterebbero comunque in vigore?
Per tutti quei trattati si tratta di un problema di diritto positivo abbastanza agevole da risolvere: l’operatività di queste fonti europee (alquanto atipiche e controverse) riguarda solo gli Stati in atto partecipanti all’Unione monetaria.
Dunque, l’adesione a questi vari trattati resterebbe, ma produrrebbe effetti realmente vincolanti solo in quanto persistesse lo status di aderente all’Unione Monetaria. Se non c’è più questo status, il paese resta parte di questo trattato, ma esso non rileverà in termini di obblighi “perfetti” e di sanzioni attualmente applicabili. Un paese “con deroga” non è obbligato in modo effettivo. Ci sono, del resto, delle clausole specifiche a dimostrarlo: l’art.14 del Fiscal Compact, ad esempio, prescrive come l’insieme delle norme essenziali si applicano ai paesi membri “con deroga”  dal momento in cui iniziano effettivamente a far parte dell’Unione Monetaria.
Sul piano politico, però, queste alchimie finanziarie costruite per salvare l’euro si dissolverebbero nel momento in cui un paese importante come l’Italia dovesse decidere di uscire dall’euro, innescandone la dissoluzione.
Ragionando sull’ipotesi di Eurexit dell’Italia. Quali sono le priorità che il paese dovrebbe tenere in considerazione? 
Secondo me vanno distinte quelle che sono misure emergenziali che servono nell’immediato e quelle misure strutturali di lungo periodo.
Le prime sono state ben illustrate da un concorso di studi sulle conseguenze dell’Eurexit citato anche da Alberto Bagnai nel Tramonto dell’euro. Riguardano in particolare la segretezza della decisione dell’uscita – che non deve essere anticipata ai mercati, soprattutto in un contesto di Banca centrale indipendente pura, recepita dal diritto interno in applicazione del trattato,  che ha il divieto assoluto di intervenire a sostegno dello Stato –  poi la chiusura delle banche per un certo periodo di tempo, e altre misure di “primo impatto”.
Quindi si arriva alla sostanza del problema: la sostenibilità del sistema nel lungo periodo. E qui non si può che ritornare al modello costituzionale, riaffermando come la sua compressione “lo vuole l’Europa” deve cessare con la fine dell’euro. Facciamo solo un esempio: l’uscita ci lascia assoggettati all’art. 126 del TFUE sull’indebitamento eccessivo, ma, per il paese fuoriuscito, avente lo status “con deroga”, non è prevista la fase sanzionatoria. Il Regno Unito convive allegramente con super deficit da quando è fallita la crisi dal fallimento Lehman Brothers dal 2008.
E poi ci sono le misure strutturali, ma quelle dipendono dal tipo di società che si vuole plasmare.
Fare deficit per politiche di “Banking Welfare” (come in UK e Irlanda) è un conto. Altra cosa è fare deficit per rilanciare un settore industriale e, come suo complemento logico, bancario pubblico, che consentano di affrontare una politica industriale indispensabile, colmando il gap di know how e di tecnologia perso a seguito dell’output gap, e della deindustralizzazione, derivati dai vincoli fiscali e monetari europei e dal mercantilismo asimmetrico della Germania.
Tutto questo lo indico nella road map del libro ed osservo che sempre più persone condividano quest’approccio. Il problema è un altro: l’Italia ha le risorse culturali diffuse, cioè dal senso comune del cittadino fino alla classe dirigente attuale, per uscire dalla crisi?
La risposta temo sia, al momento, no. E questo a causa di una classe politica che, nella sua ostentata ignoranza, pare compattamente convinta che l’Italia, senza il vincolo esterno, sarebbe cresciuta di meno. E ciò con i media schierati tutt’ora a ribadire  la favola che il paese viveva una situazione di inflazione e disoccupazione drammatica prima di entrare nell’euro. Il tutto contraddetto platealmente dai dati, soprattutto se risaliamo alla fase anteriore al divorzio tra la Bankitalia e Tesoro ed all’ingresso nello Sme, che sono stati la prova generale del sistema.
E’ fiducioso che dalle elezioni europee del prossimo maggio possa arrivare un cambiamento?
Sicuramente ci sarà un cambiamento della composizione del Parlamento con l’entrata di alcune forze di paesi in sofferenza a causa delle politiche europee e che chiederanno un cambiamento rispetto a questo vincolo e queste politiche. Che riescano poi a dare una piega pratica a questa loro presenza ne dubito, perché il Parlamento non fa molto. E’ un co-decidente subordinato a chi ha la forza decisionale ed ogni potere d’iniziativa. Può dire si e no a qualcosa ormai essenzialmente deciso da qualcun’altro. Se queste forze arrivassero alla maggioranza assoluta potrebbero imprimere una certa composizione alla Commissione, questo si. Ma anche qui il problema è lo stesso che ha l’Italia allargato a tutto il continente: esiste una classe dirigente  di europei cosciente di questi problemi, abbastanza numerosa da trasformare queste soluzioni di buon senso in consenso?
La desertificazione dei diritti, l’inversione del conflitto sociale, hanno portato  ad una corrispondente desertificazione culturale e democratica. Non voglio passare per catastrofista, ma quanto tempo occorre per ridisegnare una corretta percezione delle dinamiche socio-economiche e per un ribilanciamento verso la democrazia, che è poi prosperità di tutti?
Non è paradossale, ma forse la migliore speranza potrebbe arrivare dall’America, dove non sono solo Krugman e Stiglitz a denunciare queste dinamiche, ma la società inizia ad avere un rigurgito che va oltre la militanza di strada di Occupy Wall Street e pare poter divenire un attore politico elettorale. Il problema è se a questa vivace proposizione del dibattito politico-culturale corrisponderà una riorganizzazione della società frutto di questa rivendicazione. Gli Stati Uniti, ispirandosi ai loro stessi Padri Costituenti, dovrebbero ora tornare ad Alexander Hamilton, colui che dopo l’indipendenza aveva compreso che l’imposizione del libero-scambismo da parte dell’impero inglese avrebbe riportato il giovane Stato nella medesima condizione di sottomissione a quelle stesse oligarchie bancarie, legate all’impero britannico, che avevano combattuto.
E per questo si fece promotore per lo sviluppo di un “infant capitalism” che prevedeva un livello di intervento statale che allora veniva variamente definito protezionismo. E che invece, adeguandosi ai tempi dello sviluppo economico attuale, esprime un principio di autoconservazione sociale delle comunità statali democratiche, che promuovono il benessere generale. Se l’America desse un segnale del genere ci sarebbe un riequilibrio molto più rapido in Europa”.
L’intervista è di Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico.it – che ringraziamo.

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