Luciano
Barra Caracciolo è Presidente di sezione del Consiglio di Stato,
Rappresentante italiano presso la rete UE degli organi di autogoverno
del potere giudiziario, curatore del blog Orizzonte 48 ed Autore di
“Euro e (o?) democrazia costituzionale. La convivenza impossibile tra
costituzione e trattati europei”.
In sostanza, il dottor Luciano Barra Caracciolo è un dirigente di
vertice dello Stato italiano. Ed ha rilasciato una straordinaria
intervista nella quale spiega come fare a uscire dall’euro senza
disastri e a norma di legge, di tutte le leggi e le convenzioni firmate
dall’Italia in sede europea.
Dottor Caracciolo, nel suo libro lei arriva ad affermare come
la convivenza tra i Trattati europei e la Costituzione italiana sia
impossibile. Come e chi potrebbe sanare questa frattura?
“Basterebbe riproporre il significato vero della Costituzione come
originariamente concepita. Non a caso io nel mio libro riporto brani
tratti dalle sedute della “Costituente”, i relativi dibattiti, cioè la
fonte diretta e l’interpretazione autentica di quelle che erano le
intenzioni dei Costituenti. Il problema, se ragioniamo sul dover essere,
cioè sulla restaurazione di un minimo di legalità costituzionale, è un
altro: ma i partiti lo vogliono fare? Si pongono questi problemi?
Se inizieranno a farlo, il corretto intendimento della Costituzione è
di per sé uno strumento potentissimo. Nel libro propongo due cose: in
primo luogo dimostro come la Corte costituzionale attraverso la lezione
della Costituente potrebbe dichiarare costituzionalmente illegittimo il
vincolo dei trattati, cioè la stessa ratifica. In secondo luogo,
propongo una road map che non ha nulla di eversivo, ma è una
ricalibratura dei pubblici poteri, cioè delle istituzioni democratiche
sulle prescrizioni della Costituzione. Sia la liberazione dal vincolo
esterno che la ricorrezione dei suoi effetti sulle istituzioni
democratiche passa per lo strumento della legalità suprema, la
Costituzione, e nulla è più illegale di quello che genera uno stato di
sospensione sine die di questa, vale a dire i trattati europei.
Basterebbe ripristinare la legalità costituzionale ed automaticamente
avremo la via d’uscita progressiva da questo stato di cose.
Si discute molto sulla questione giuridica del recesso dall’Unione Monetaria. Come potrebbe farlo tecnicamente l’Italia?
In una prima fase avevo ipotizzato che si potesse ritornare ad
un’idea sobria dei trattati, qualificandoli come fonti pattizie e quindi
applicando la Convenzione di Vienna. Questa, nei suoi principi
generali, è considerata una raccolta ricognitiva di diritto
consuetudinario ed in alcune sue parti espressione di ius cogens – vale a
dire superiore per rango a qualunque altra norma pattizia o generale – e
tra quest’ultimi principi internazionali inderogabili (da un qualsiasi
trattato) rientra sicuramente il principio dell’impossibilità del
vincolo predatorio negoziale, vale a dire del vincolo irreversibile e
senza limiti di tempo alla partecipazione ad un trattato, a prescindere
dal manifestarsi di suoi effetti manifestamente contrari alla
convenienza di una parte e favorevoli soltanto all’altra (rebus sic
stantibus). Su questo sfondo avevo inizialmente ipotizzato una prima via
d’uscita possibile.
Ma, sempre con una visione attenta allo jus gentium, si può
tranquillamente interpretare le stesse clausole dei trattati: in
particolare mi concentro sugli articoli 139 e 140 del TFUE, formulando
la teoria del contrarius actus. Dato che la procedura di ammissione
all’euro configura l’ammissione medesima come atto ampliativo, la
disciplina contenuta in tali norme richiede la manifestazione di
consenso dello Stato considerato in ogni fase procedurale. Questo
consenso, quindi, è un elemento costitutivo indispensabile
dell’ammissione e potrà essere ritirato in qualsiasi momento in
applicazione del principio della insopprimibile libertà del consenso nel
diritto internazionale. Per comprendere meglio, basta fare l’esempio
degli atti ampliativi del diritto pubblico interno come una licenza a
vendere alcolici, che non prefigura un obbligo alla vendita e può essere
sempre restituita.
Questo è un principio generale pacifico, risalente al diritto
internazionale generale, nonché ai principi di buona fede e correttezza
nell’esecuzione dei trattati, interpretati secondo i principi giuridici
generali delle nazioni civili. Non esiste quindi un vincolo
irreversibile e non è configurato come tale dalle norme se lette in
buona fede, intesa come vincolo normativo di jus cogens. E, di
conseguenza, la strategia che suggerisco è quella di un recesso secco,
senza alcun tipo di giustificazione. Le norme che implicano un
beneficio, nello stesso modo prevedono la possibilità di restituzione
del “titolo” di quel beneficio.
Questo recesso dall’euro influenzerebbe in qualche modo la partecipazione dell’Italia all’Unione Europea?
Basandosi sugli art. 139 e 140, è perfettamente logico e naturale
che lo stato che decida di rinunciare al beneficio della partecipazione
nell’euro rimanga nella stessa condizione degli altri paesi “con
deroga”, come ad esempio il Regno Unito o la Svezia. Permangono cioè
all’interno dell’Unione europea per tutte le norme specifiche che non
riguardano la partecipazione ed adesione all’unione monetaria. Lo Stato
“uscente” recupererebbe una condizione prevista dai Trattati, già
tipizzata dai Trattati e che soprattutto non è transitoria: questo
perchè non c’è un obbligo correlato ad un termine legale per l’adesione
all’Unione monetaria, né l’Unione europea vede come suo elemento
costitutivo della sua soggettività politica la partecipazione
generalizzata all’unione monetaria. E questo è dimostrato dalla lettura
degli art. 3 par. 3 del Tue in cui si descrive lo schema programmatico
socio-economico dell’Ue, insieme al par.4, da cui emerge con chiarezza
che l’Ue è un soggetto già nella sua pienezza nel momento in cui
programma di istituire l’unione monetaria. Dalla loro corretta
interpretazione si comprende come il programma economico-monetario non
sia costitutivo della sua soggettività di diritto internazionale.
Che cosa accadrebbe però a tutti quei trattati
intergovernativi come il Mes ed il Fiscal Compact? Resterebbero comunque
in vigore?
Per tutti quei trattati si tratta di un problema di diritto positivo
abbastanza agevole da risolvere: l’operatività di queste fonti europee
(alquanto atipiche e controverse) riguarda solo gli Stati in atto
partecipanti all’Unione monetaria.
Dunque, l’adesione a questi vari trattati resterebbe, ma produrrebbe
effetti realmente vincolanti solo in quanto persistesse lo status di
aderente all’Unione Monetaria. Se non c’è più questo status, il paese
resta parte di questo trattato, ma esso non rileverà in termini di
obblighi “perfetti” e di sanzioni attualmente applicabili. Un paese “con
deroga” non è obbligato in modo effettivo. Ci sono, del resto, delle
clausole specifiche a dimostrarlo: l’art.14 del Fiscal Compact, ad
esempio, prescrive come l’insieme delle norme essenziali si applicano ai
paesi membri “con deroga” dal momento in cui iniziano effettivamente a
far parte dell’Unione Monetaria.
Sul piano politico, però, queste alchimie finanziarie costruite per
salvare l’euro si dissolverebbero nel momento in cui un paese importante
come l’Italia dovesse decidere di uscire dall’euro, innescandone la
dissoluzione.
Ragionando sull’ipotesi di Eurexit dell’Italia. Quali sono le priorità che il paese dovrebbe tenere in considerazione?
Secondo me vanno distinte quelle che sono misure emergenziali che
servono nell’immediato e quelle misure strutturali di lungo periodo.
Le prime sono state ben illustrate da un concorso di studi sulle
conseguenze dell’Eurexit citato anche da Alberto Bagnai nel Tramonto
dell’euro. Riguardano in particolare la segretezza della decisione
dell’uscita – che non deve essere anticipata ai mercati, soprattutto in
un contesto di Banca centrale indipendente pura, recepita dal diritto
interno in applicazione del trattato, che ha il divieto assoluto di
intervenire a sostegno dello Stato – poi la chiusura delle banche per
un certo periodo di tempo, e altre misure di “primo impatto”.
Quindi si arriva alla sostanza del problema: la sostenibilità del
sistema nel lungo periodo. E qui non si può che ritornare al modello
costituzionale, riaffermando come la sua compressione “lo vuole
l’Europa” deve cessare con la fine dell’euro. Facciamo solo un esempio:
l’uscita ci lascia assoggettati all’art. 126 del TFUE sull’indebitamento
eccessivo, ma, per il paese fuoriuscito, avente lo status “con deroga”,
non è prevista la fase sanzionatoria. Il Regno Unito convive
allegramente con super deficit da quando è fallita la crisi dal
fallimento Lehman Brothers dal 2008.
E poi ci sono le misure strutturali, ma quelle dipendono dal tipo di società che si vuole plasmare.
Fare deficit per politiche di “Banking Welfare” (come in UK e
Irlanda) è un conto. Altra cosa è fare deficit per rilanciare un settore
industriale e, come suo complemento logico, bancario pubblico, che
consentano di affrontare una politica industriale indispensabile,
colmando il gap di know how e di tecnologia perso a seguito dell’output
gap, e della deindustralizzazione, derivati dai vincoli fiscali e
monetari europei e dal mercantilismo asimmetrico della Germania.
Tutto questo lo indico nella road map del libro ed osservo che
sempre più persone condividano quest’approccio. Il problema è un altro:
l’Italia ha le risorse culturali diffuse, cioè dal senso comune del
cittadino fino alla classe dirigente attuale, per uscire dalla crisi?
La risposta temo sia, al momento, no. E questo a causa di una
classe politica che, nella sua ostentata ignoranza, pare compattamente
convinta che l’Italia, senza il vincolo esterno, sarebbe cresciuta di
meno. E ciò con i media schierati tutt’ora a ribadire la favola che il
paese viveva una situazione di inflazione e disoccupazione drammatica
prima di entrare nell’euro. Il tutto contraddetto platealmente dai dati,
soprattutto se risaliamo alla fase anteriore al divorzio tra la
Bankitalia e Tesoro ed all’ingresso nello Sme, che sono stati la prova
generale del sistema.
E’ fiducioso che dalle elezioni europee del prossimo maggio possa arrivare un cambiamento?
Sicuramente ci sarà un cambiamento della composizione del
Parlamento con l’entrata di alcune forze di paesi in sofferenza a causa
delle politiche europee e che chiederanno un cambiamento rispetto a
questo vincolo e queste politiche. Che riescano poi a dare una piega
pratica a questa loro presenza ne dubito, perché il Parlamento non fa
molto. E’ un co-decidente subordinato a chi ha la forza decisionale ed
ogni potere d’iniziativa. Può dire si e no a qualcosa ormai
essenzialmente deciso da qualcun’altro. Se queste forze arrivassero alla
maggioranza assoluta potrebbero imprimere una certa composizione alla
Commissione, questo si. Ma anche qui il problema è lo stesso che ha
l’Italia allargato a tutto il continente: esiste una classe dirigente
di europei cosciente di questi problemi, abbastanza numerosa da
trasformare queste soluzioni di buon senso in consenso?
La desertificazione dei diritti, l’inversione del conflitto
sociale, hanno portato ad una corrispondente desertificazione culturale
e democratica. Non voglio passare per catastrofista, ma quanto tempo
occorre per ridisegnare una corretta percezione delle dinamiche
socio-economiche e per un ribilanciamento verso la democrazia, che è poi
prosperità di tutti?
Non è paradossale, ma forse la migliore speranza potrebbe arrivare
dall’America, dove non sono solo Krugman e Stiglitz a denunciare queste
dinamiche, ma la società inizia ad avere un rigurgito che va oltre la
militanza di strada di Occupy Wall Street e pare poter divenire un
attore politico elettorale. Il problema è se a questa vivace
proposizione del dibattito politico-culturale corrisponderà una
riorganizzazione della società frutto di questa rivendicazione. Gli
Stati Uniti, ispirandosi ai loro stessi Padri Costituenti, dovrebbero
ora tornare ad Alexander Hamilton, colui che dopo l’indipendenza aveva
compreso che l’imposizione del libero-scambismo da parte dell’impero
inglese avrebbe riportato il giovane Stato nella medesima condizione di
sottomissione a quelle stesse oligarchie bancarie, legate all’impero
britannico, che avevano combattuto.
E per questo si fece promotore per lo sviluppo di un “infant
capitalism” che prevedeva un livello di intervento statale che allora
veniva variamente definito protezionismo. E che invece, adeguandosi ai
tempi dello sviluppo economico attuale, esprime un principio di
autoconservazione sociale delle comunità statali democratiche, che
promuovono il benessere generale. Se l’America desse un segnale del
genere ci sarebbe un riequilibrio molto più rapido in Europa”.
L’intervista è di Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico.it – che ringraziamo.
visto su: http://sapereeundovere.it
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