La citazione del titolo viene dalla recente lettura di La carta e il
territorio, romanzo di Michel Houlellebecq sul quale l'unica cosa che ho
da dire è:"Leggetelo!".
In attesa di rileggerlo io stessa a breve, sono capitata stamattina sulla pagina Facebook di Mexileaks, grazie a una segnalazione dall'amico Martinez, e vi ho scovato l'immagine che trovate qui sotto.
Mi ha suggerito una puntuale corrispondenza fra il come consideriamo il nostro corpo e il come consideriamo il territorio, quei luoghi della terra dove i nostri corpi nascono, si adattano, si plasmano, agiscono, seguendo inconsapevoli l'influenza che l'architettura, sempre più asettica, modulare e funzionale, proietta sulla nostra percezione di noi stessi e quindi del mondo.
C'è come una corrente sotterranea che passa dalla devastazione ambientale, in ossequio a un'idea di modernità dalle sembianze aliene, alla devastazione che ritroviamo riflessa sui nostri corpi ormai meramente funzionali.
A cosa?
Al piacere, al piacersi, al mostrarsi, all'esibire ciò che ci premuriamo di diventare per fare del nostro corpo il passaporto per il diritto all'esistenza in un mondo alieno. Il nostro corpo si vende e si compra, in vari modi e misure, come ogni altra cosa.
Anche dove non si venda e non si intenda vendere consapevolmente nulla, anche dove ci si limiti all'illusione del seguire solo una tendenza estetica contemporanea, non facciamo altro che adeguare il nostro corpo alla più sovrastante tendenza al commercio di ogni cosa che ci possa garantire un qualche diritto ad esistere.
Tutto ci spinge a questo: da un colloquio di lavoro, dove saremo giudicati in base al nostro aspetto, che fa curriculum quanto e più del curriculum, al mantenimento di un minimo di vita sociale, alla costruzione di relazioni affettive.
Una vita sociale quasi obbligata, improntata all'essere presenti, all'apparire, in pubblico e in privato, sempre e solo al meglio di sè.
E non tanto per provare a coltivare relazioni di un qualche reale significato per la nostra vita emotiva profonda, cosa sulla quale abbiamo perso ogni concreta speranza di contatto vista la confusione sul senso stesso della nostra esistenza fra reale e immaginario, ma solo per provare a vivere purché sia, fosse anche come fotocopia deambulante di un telefilm o di un romanzo d'appendice ormai fuori catalogo.
Fin nei minimi dettagli, l'ambiente esterno si riflette in noi per riflettersi poi come in uno specchio fuori di noi, in un continuo gioco di rifrazione che esige l'allontanamento del reale per costruirci un facsimile della vita in formato .jpeg o .avi, così da poter affermare la nostra esistenza postando immagini di noi stessi su facebook o presentandoci con un video-curriculum per candidarci a un colloquio di lavoro.
Allo stesso modo in cui spariscono boschi e campi per far posto alle ruspe, che ce li renderanno trasformati in centri commerciali o multiservizi, sparisce in noi insieme, lentamente ma inesorabilmente, ogni dettaglio del nostro corpo che non sia funzionale e adeguato ai tempi: dopo l'ossessione per puzze e puzzette (mascherate da altre puzze e puzzette decise dal mercato); dopo il via peli e peletti che rischiavano di descriverci come ancora troppo umani rispetto all'idea aliena di modernità, siamo scesi fino coltivare nei minimi dettagli le nostre zone pubiche, trasformate in perizomi plastici da perfette barbie così che ci garantiscano di non sfigurare, con dettagli eccessivamente umani, nemmeno dal vivo e in versione hot.
Se appena proviamo un vago senso di nostalgia per ciò che non siamo più o ciò che non ritroviamo più, ce ne liberiamo subito aggiornando lo stato facebook o il blog, così da liberarci quanto prima di un sentimento che potrebbe, se metabolizzato troppo a lungo, aprirci gli occhi su ciò che davvero ci stiamo facendo: annullando progressivamente in noi ogni traccia di umana animalità.
Nell'immagine si fermano al 2010, mentre il libro di Houllebecq finisce in un ipotetico 2030, circa.
Finisce ipotizzando una natura che si riprende tutto lo spazio ormai inutilmente occupato da fabbriche in disuso e un ritorno a una vita rurale molto semplice e civile, evitando in ogni caso ritorni alle caverne e mettendo meglio a frutto, con un uso più ragionato e distaccato, le comode recenti innovazioni, ormai affrancati dalla compulsività attuale che ci spinge come cani ammaestrati al possesso di gadget perlopiù idiotizzanti.
E' una fine consolatoria, quella che ipotizza Houllebecq, ma è la sola ipotizzabile al momento.
Senza un ritorno del rispetto per la natura, che si rivela essere alla fine più determinata e forte nel contrasto all'opera devastatrice dell'uomo, non si torna al rispetto del corpo.
In attesa di rileggerlo io stessa a breve, sono capitata stamattina sulla pagina Facebook di Mexileaks, grazie a una segnalazione dall'amico Martinez, e vi ho scovato l'immagine che trovate qui sotto.
Mi ha suggerito una puntuale corrispondenza fra il come consideriamo il nostro corpo e il come consideriamo il territorio, quei luoghi della terra dove i nostri corpi nascono, si adattano, si plasmano, agiscono, seguendo inconsapevoli l'influenza che l'architettura, sempre più asettica, modulare e funzionale, proietta sulla nostra percezione di noi stessi e quindi del mondo.
C'è come una corrente sotterranea che passa dalla devastazione ambientale, in ossequio a un'idea di modernità dalle sembianze aliene, alla devastazione che ritroviamo riflessa sui nostri corpi ormai meramente funzionali.
A cosa?
Al piacere, al piacersi, al mostrarsi, all'esibire ciò che ci premuriamo di diventare per fare del nostro corpo il passaporto per il diritto all'esistenza in un mondo alieno. Il nostro corpo si vende e si compra, in vari modi e misure, come ogni altra cosa.
Anche dove non si venda e non si intenda vendere consapevolmente nulla, anche dove ci si limiti all'illusione del seguire solo una tendenza estetica contemporanea, non facciamo altro che adeguare il nostro corpo alla più sovrastante tendenza al commercio di ogni cosa che ci possa garantire un qualche diritto ad esistere.
Tutto ci spinge a questo: da un colloquio di lavoro, dove saremo giudicati in base al nostro aspetto, che fa curriculum quanto e più del curriculum, al mantenimento di un minimo di vita sociale, alla costruzione di relazioni affettive.
Una vita sociale quasi obbligata, improntata all'essere presenti, all'apparire, in pubblico e in privato, sempre e solo al meglio di sè.
E non tanto per provare a coltivare relazioni di un qualche reale significato per la nostra vita emotiva profonda, cosa sulla quale abbiamo perso ogni concreta speranza di contatto vista la confusione sul senso stesso della nostra esistenza fra reale e immaginario, ma solo per provare a vivere purché sia, fosse anche come fotocopia deambulante di un telefilm o di un romanzo d'appendice ormai fuori catalogo.
Fin nei minimi dettagli, l'ambiente esterno si riflette in noi per riflettersi poi come in uno specchio fuori di noi, in un continuo gioco di rifrazione che esige l'allontanamento del reale per costruirci un facsimile della vita in formato .jpeg o .avi, così da poter affermare la nostra esistenza postando immagini di noi stessi su facebook o presentandoci con un video-curriculum per candidarci a un colloquio di lavoro.
Allo stesso modo in cui spariscono boschi e campi per far posto alle ruspe, che ce li renderanno trasformati in centri commerciali o multiservizi, sparisce in noi insieme, lentamente ma inesorabilmente, ogni dettaglio del nostro corpo che non sia funzionale e adeguato ai tempi: dopo l'ossessione per puzze e puzzette (mascherate da altre puzze e puzzette decise dal mercato); dopo il via peli e peletti che rischiavano di descriverci come ancora troppo umani rispetto all'idea aliena di modernità, siamo scesi fino coltivare nei minimi dettagli le nostre zone pubiche, trasformate in perizomi plastici da perfette barbie così che ci garantiscano di non sfigurare, con dettagli eccessivamente umani, nemmeno dal vivo e in versione hot.
Se appena proviamo un vago senso di nostalgia per ciò che non siamo più o ciò che non ritroviamo più, ce ne liberiamo subito aggiornando lo stato facebook o il blog, così da liberarci quanto prima di un sentimento che potrebbe, se metabolizzato troppo a lungo, aprirci gli occhi su ciò che davvero ci stiamo facendo: annullando progressivamente in noi ogni traccia di umana animalità.
Nell'immagine si fermano al 2010, mentre il libro di Houllebecq finisce in un ipotetico 2030, circa.
Finisce ipotizzando una natura che si riprende tutto lo spazio ormai inutilmente occupato da fabbriche in disuso e un ritorno a una vita rurale molto semplice e civile, evitando in ogni caso ritorni alle caverne e mettendo meglio a frutto, con un uso più ragionato e distaccato, le comode recenti innovazioni, ormai affrancati dalla compulsività attuale che ci spinge come cani ammaestrati al possesso di gadget perlopiù idiotizzanti.
E' una fine consolatoria, quella che ipotizza Houllebecq, ma è la sola ipotizzabile al momento.
Senza un ritorno del rispetto per la natura, che si rivela essere alla fine più determinata e forte nel contrasto all'opera devastatrice dell'uomo, non si torna al rispetto del corpo.
Il quale, alla fine, mantiene anche oggi, nonostante le quotidiane
fatiche contro le puzze e le settimanali cerette di guerra ai peli,
alcuni tratti spontaneamente scimmieschi, difficili da sterminare una
volta per sempre.
Forse per ricordarci che in noi persiste, proprio come ci insegna l'osservazione del mondo vegetale e al di là delle nostre plastificanti pretese estetiche, un irriducibile tratto animale che possiamo sì mimetizzare, mai completamente eludere.
Forse per ricordarci che in noi persiste, proprio come ci insegna l'osservazione del mondo vegetale e al di là delle nostre plastificanti pretese estetiche, un irriducibile tratto animale che possiamo sì mimetizzare, mai completamente eludere.
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