Gestire la non-conoscenza in medicina
La
medicina è ritenuta da molti una scienza (per alcuni addirittura una scienza
esatta) e come tale deve innanzitutto rispettare i canoni e i principi del
metodo scientifico, che negli ultimi tre secoli si è riconosciuto nel modello
riduzionista. La questione si è fatta più incalzante con l’avvento
dell’Evidence Based Medicine (EBM), secondo cui le conoscenze sono acquisite
attraverso studi rigorosamente scientifici (clinical trials) e le decisioni dei
professionisti della salute devono essere coerenti con tali conoscenze. Il
resto non conta, è solo frutto della credulità, se non addirittura oggetto di
scherno e derisione.
Sul
fatto che gli interventi medici dovrebbero tener conto delle migliori
conoscenze scientifiche, sono teoricamente tutti d’accordo, ma a dire il vero,
nella quotidianità le cose non stanno proprio così. Per esempio, secondo il
Clinical Evidence Handbook (il testo che sintetizza le migliori conoscenze
scientifiche) solo l’11% di oltre
tremila prestazioni cliniche di uso corrente si fondano su chiare prove di
efficacia (1). Dunque, con buona pace degli “evidentologi”, gran parte di ciò che costituisce l’odierna
medicina non si basa affatto su prove scientifiche, né pare lo potrà essere
per molto tempo ancora. Oltretutto, Joannidis ci rammenta che “la
maggior parte dei risultati delle ricerche scientifiche è falsa”
(2), mentre i sensazionali annunci di cure miracolose sono spesso smentiti da
studi successivi, o semplicemente le evidenze si modifichino nel corso del
tempo, minando le nostre certezze.
È
necessario, quindi rassegnarsi al fatto che nonostante gli straordinari progressi raggiunti in alcuni campi della
medicina, di fatto molto di ciò che determina la salute o la malattia rimane
ignoto, dobbiamo cioè saper
convivere con l’incertezza e l’ignoranza.
Ciò riguarda sia le patologie che
minacciano la vita (tumori, malattie vascolari, malattie mentali e
neurologiche, malattie rare) sia i piccoli disturbi e i vaghi malesseri di cui la nostra esistenza è
intrisa e per i quali ciascuno di noi trova piccoli espedienti, trucchi e
rimedi antichi o moderni, non certo evidence-based, ma che molte volte, almeno
per il diretto interessato, funzionano. Per capire la dimensione del fenomeno
basti ricordare che il 90% delle persone riferisce che nell’ultima settimana ha sofferto di
sintomi verso i quali la medicina è piuttosto impotente, quali, ad esempio: mal
di schiena, affaticamento, mal di testa, congestione nasale, disturbi del
sonno, dolori articolari o muscolari, irritabilità, ansietà, perdita di memoria
e via discorrendo (3).
Il
problema è che la gente dal medico ci va con l’idea di trovare una soluzione a
tutte le sue malattie e a tutti i suoi malesseri. In altre parole, il paziente
vuole individuare una causa del suo star male, dare un nome ai sintomi e
ricevere una cura. Ma soprattutto, la gente chiede di essere ascoltata e di
non sentirsi dire che il suo disturbo è un’invenzione, non è contemplato dalla
medicina, è solo una questione psicologica e che non vi sono rimedi. In
genere il paziente è portato a credere che tali risposte siano da attribuire
all’ignoranza di quel medico e che da qualche parte ci deve essere qualcuno che
conosce il suo problema e che le saprà suggerire una soluzione, non importa se
scientifica o meno. Non per nulla oltre la metà della popolazione, benché
convinta che la medicina sia una scienza esatta, non è soddisfatta delle cure
che riceve e dopo aver peregrinato nei tortuosi meandri della scienza
ufficiale, approda alle medicine alternative. I loro cultori, infatti, (più o
meno in buona fede) hanno imparato a gestire anche ciò che non conoscono: e ciò
non è un male.
Il medico moderno e scrupoloso, invece,
coerentemente con quanto gli è stato insegnato per tutto il corso degli studi, è
costretto ad agire in modo scientifico e si trova, quindi, completamente
disorientato e impotente di fronte alla valanga di problemi che non può gestire
attraverso i canoni della scienza e per i quali cerca precarie soluzioni,
ricorrendo alla tecnologia (l’unico strumento che ha imparato ad usare): esami
sempre più approfonditi, non scevri di effetti negativi e rinvii a specialisti
di ogni genere.
Molti di questi problemi, infatti, appartengono alla sfera della
non-conoscenza, un’area di grande impatto sulla quotidianità, ma tuttora
inesplorata e completamente ignorata dalla medicina ufficiale e dai percorsi di
formazione dei professionisti della salute.
Oltretutto,
questo rigido atteggiamento scientifico,
apparentemente ineccepibile, impedisce di ricorrere all’effetto placebo, un
potente strumento di cura, in grado di risvegliare le straordinarie
capacità di difesa e di guarigione presenti in ciascuno di noi (vis sanatrix
naturae). Purtroppo, anche questo effetto, pur ben dimostrabile e oggetto di ricerca,
risulta ancora poco conosciuto e come tutto ciò che non si conosce e non si può
spiegare, ha assunto un valore negativo. Il medico-scienziato si guarda bene,
quindi, dall’utilizzarlo, lasciando sguarnito l’intero campo d’azione che è
stato prontamente occupato dalle medicine “altre”.
Sciamani,
maghi e stregoni hanno da sempre basato le loro cure proprio sulla capacità di
prendersi carico dei problemi e di agire sulla persona e sulle sue capacità di
reazione. Anche in un recente passato il medico, pur avvalendosi quasi esclusivamente
della relazione e della parola era in grado di far fronte a molti problemi e
godeva, più di oggi, di autorevolezza, rispetto e prestigio. Contesto, empatia,
aspettativa di un beneficio possono modificare favorevolmente il decorso di una
malattia, indipendentemente da ciò che costituisce la prescrizione, perché sono
fattori che agiscono sulle forze interne dell’individuo (4).
I
cultori delle medicine “altre”, fondano i loro successi proprio su questi
effetti, di cui poco sappiamo. Per loro non c’è un’area della non-conoscenza, a
tutto possono dare un nome, hanno sempre una risposta sicura, una parola di
speranza e una cura per ogni problema, piccolo o grande che sia. Al paziente
non importa in cosa consiste la cura e se sia registrata nei testi
evidence-based; basta che funzioni. La stessa acqua con un nome diverso magari
scritto in latino, guardare l’iride, recitare una preghiera, attenersi a
qualche rituale, ... Certo non è scientifico ma funziona. Sono
gli stessi pazienti che ve lo confermano e oltretutto non producono effetti
collaterali e dannosi. Che vogliamo di più?
Perché la medicina scientifica, quando non dispone di risposte sicure e scientificamente efficaci, è costretta a rinunciare a tutto questo. C’è un modo serio e pragmatico per ottenere i medesimi risultati? C’è un modo per sottrarre la sfera della non-conoscenza ai mercanti e ai venditori di elisir?
Bibliografia
1.
BMJ
Evidence Center: Clinical evidence Handbook 2012.
2.
Ioannidis
JPA: Why Most Published Research Findings Are False. PLoS Med 2015; 2(8): e124.
3.
Petrie
KJ et al: How common are symptoms? Evidence from a New Zealand national
telephone survey. BMJ Open 2014; 4:e005374.
4.
Benedetti
F: Il cervello del paziente. Giovanni Fioriti Editore; 2012.
Antonio
Bonaldi, 21 marzo 2016
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