La
responsabilità penale del medico oncologo, alla luce della recente polemica
sulle teorie Hameriane
La
responsabilità penale del medico oncologo, alla luce della recente
polemica sulle teorie Hameriane
Premessa.
E’ di
questi giorni la notizia, riportata su Tg e giornali, che un medico sarebbe
stato accusato di omicidio colposo per aver seguito le cosiddette teorie
Hameriane, nella cura di un paziente oncologico.
La
notizia è priva di senso, come l’accusa mossa al medico. Vediamo il perché,
precisando che il mio discorso sarà prima di tutto giuridico, rimandando ad
altre fonti per gli approfondimenti medici, che non sono di mia competenza.
Al
termine del nostro articolo vedremo come non sia possibile ipotizzare un’accusa
di omicidio per chi segue le teorie hameriane, mentre in alcuni casi sarebbe
possibile ascrivere a medici tradizionali il reato di omicidio colposo.
Hamer
Le
teorie Hameriane non sono in realtà teorie, ma sono “risultati” dello studio
scientifico condotto da questo medico nell’ambito dell’oncologia. Hamer è
giunto a concludere che ogni patologia oncologica è associata ad un trauma
specifico, cui si può risalire in modo scientifico. Corollario di questo primo
punto, è che una volta capito il trauma, il paziente può guarire da solo, senza
necessità di particolari cure.
Le
teorie Hameriane, è bene precisarlo, non sono teorie che indicano una cura, ma
servono solo a fare una diagnosi della cause.
Una volta avuta la diagnosi, insomma, il paziente è libero di curarsi come vuole. Anzi, talvolta, proprio in abse alla psicologia del paziente, si sonsiglia di praticare terapie alternative, a seconda dei casi.
Sono
stato testimone di questo due anni fa, quando una persona a me cara si ammalò
di tumore al seno; la accompagnai da ben due medici Hameriani, ed entrambi,
dopo averle fatto la stessa diagnosi (un problema nel rapporto con la madre,
che lei riconobbe come vero) le sconsigliarono di cessare le cure convenzionali
che stava facendo (cure che la porteranno alla morte nel giro di 10 mesi).
Ipotizzare un’accusa di omicidio colposo nel caso di un medico che segua le teorie hameriane è quindi privo di senso logico – giuridico, perché la persona non muore per la “terapia” (che lo ripeto, è una diagnosi), ma muore di tumore.
Si
obietterà che nel caso in cui il medico sconsigli, come in effetti può
avvenire, di seguire le vie terapeutiche ufficiali, il fatto assume la veste
del reato omissivo (non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di
impedire equivale a cagionarlo). In altre parole, il medico non viene accusato
perché “ha ucciso” il paziente, ma perché “non ha impedito che il paziente
morisse”.
Ora,
per poter accusare un medico Hameriano di omicidio colposo, ammesso che ostui
abbia sconsigliato la paziente dal curarsi in modo convenzionale, occorrerebbe
ipotizzare (e dimostrare in modo inequivocabile) che la paziente sarebbe
guarita grazie alle cure convenzionali prescritte (di norma: chemioterapia e
radioterapia). Tale prova è praticamente impossibile, come stiamo per vedere.
Le statistiche dell’oncologia
ufficiale.
Le statistiche ufficiali
parlano di “guarigioni” dai tumori che si attestano attorno al 5 per cento. In
altre parole, solo il 5 per cento guarisce.
Occorre coniderare però che un
paziente è considerato guarito se non muore entro 5 anni dalla scoperta del
tumore; le statistiche formulate su pazienti a dieci anni dalla scoperta,
invece, parlano di circa il 2,5 per cento di guarigioni.
In altre parole, il tumore è
una malattia mortale, quindi per poter accusare un medico che pratica terapie
alternative di omicidio, bisognerebbe dimostrare che la terapia convenzionale
prescritta lo avrebbe davvero guarito.
A questo primo aspetto da
considerare occorre aggiungerne un altro. Ammesso e non concesso che una
terapia convenzionale allungherebbe in modo significativo la vita del paziente,
bisognerebbe considerare anche la qualità della vita di costui, comparando le
due strade; infatti, è innegabile che chemioterapia e radioterapia abbiano una
serie di effetti collaterali sulla qualità di vita del paziente, tali da
rendere legittima la domanda: la persona sarebbe vissuta meglio o peggio senza
le cure?
La domanda me la sono posta
anche io, stando accanto a Mariapaola nei dieci mesi della sua malattia. Si è
trattato di dieci mesi in cui i cicli di chemioterapia la sfinivano
fisicamente, vomitava, doveva spesso stare a letto per uno, due, a volte tre
giorni; gli ultimi tre mesi poi li ha passati a letto, in preda a dolori; in
definitiva sono stati dieci mesi di inferno, tali da rendere legittima la
domanda: ammesso e non concesso che senza chemioterapia sarebbe vissuta meno,
la sua vita sarebbe stato peggiore o migliore? (ho i miei dubbi che il suo
tumore al seno, un nodulo di circa tre cm, senza cure l’avrebbe uccisa in dieci
mesi facendole passare poi le sofferenze che ha effettivamente passato).
Queste quindi sono le due
domande cui bisogna rispondere positivamente prima di poter accusare un medico
di omcidio colposo:
1. la
paziente se avesse seguito una cura tradizionale sarebbe sopravvissuta o no?
2. La
paziente se avesse seguito una cura tradizionale avrebbe avuto una migliore
qualità della vita?
E la risposta, in questi casi,
è sempre negativa.
Approfondendo la questione dal
punto di vista giuridico, però, si possono fare altre considerazioni, per
giungere addirittura a ribaltare le conclusioni cui perviene la stampa la tv
main stream. Non è il medico Hameriano che può essere accusato di omicidio
colposo, ma il medico tradizionale che, per come viene condotta la cura nei
principali centri oncologici, potrebbe essere responsabile di omicidio.
Per capire il perché occorre
fare un ragionamento giuridico un po’ tecnico, ma indispensabile
La responsabilità del
medico oncologo che prescriva unicamente il protocollo ufficiale
Di recente la responsabilità
del medico in campo penale è stata “innovata” dal cosiddetto decreto balduzzi,
il quale ha stabilito che il medico che segue i protocolli ufficiali è
esonerato da responsabilità penale, salvo che abbia agito con colpa grave.
Anticipando quindi l’excursus logico
e giuridico della trattazione, ci occuperemo – nell’ordine – dei seguenti
problemi:
le reali novità apportate dal
decreto Balduzzi rispetto alla previgente legislazione in materia di
responsabilità medica;
il rapporto tra “protocolli
ufficiali” e ulteriori studi scientifici, non considerati nel protocollo
stesso;
se la mancata conoscenze di
basilari cognizioni alimentari sia da considerarsi un caso di negligenza e
imperizia grave da parte dei medici, o se invece – trattandosi di trattamenti
non inclusi nei protocolli ufficiali – possa inquadrarsi il caso nell’ambito
della colpa lieve o se addirittura non possa affermarsi che al medico non sia
da imputarsi alcuna responsabilità.
Iniziando dal primo punto, c’è
da dire che il decreto Balduzzi, nonostante tutte le polemiche che lo hanno
accompagnato, non sembra abbia portato alcuna novità nell’ambito della
disciplina previgente.
Nessuno ha mai dubitato,
infatti, che il medico che avesse seguito scrupolosamente le linee guida e i
protocolli ufficiali, in caso di evento infausto non dovesse rispondere
penalmente o perlomeno che, in caso di accertata responsabilità, l’elemento
soggettivo dovesse essere ricondotto alla colpa lieve da parte sua.
Il decreto Balduzzi, quindi,
nulla ha innovato da questo punto di vista limitandosi a ribadire quanto già a
livello giurisprudenziale era in realtà praticato da tempo. Se una ricaduta
nella consuetudine quotidiana della pratica medica c’è stata, questa è da
riscontrarsi sul piano della prassi, perché il ribadire la mancanza di
responsabilità per il medico che segue il protocollo, ha accentuato il
deplorevole fenomeno della cosiddetta medicina difensiva, cioè l’arroccarsi dei
medici ai protocolli ufficiali come dei panda agli eucalipti, anche quando ci
siano più che ragionevoli motivi per discostarsene e anche a fronte di
protocolli che si siano dimostrati completamente inefficaci sul singolo
paziente o su intere categorie di pazienti.
In altre parole, il medico oggi, per paura di rischiare, segue pedissequamente il protocollo, al fine di precostituirsi un comodo paravento nel caso le cose in cui avessero un esito negativo.
Purtuttavia, nonostante il
decreto Balduzzi abbia accentuato questo fenomeno, occorre svolgere una serie
di considerazioni.
In primo luogo il medico – come
ha stabilito anche la cassazione di recente – non solo non è tenuto a seguire
necessariamente i protocolli ufficiali, ma è addirittura obbligato a
discostarsene lì dove ci siano delle ragioni evidenti, stante la situazione
particolare del singolo paziente, che renda consigliabile un percorso
alternativo (ad esempio immaginiamo un paziente che dimostri un alta
intollerabilità alla chemio; il medico avrebbe addirittura l’obbligo di
consultarsi con altri colleghi praticanti altri protocolli diversi da quelli
ufficiali, per confrontare le possibilità di guarigione).
In secondo luogo, l’esonero da
responsabilità del medico che segue pedissequamente i protocolli ufficiali
avrebbe un senso se si partisse dal presupposto che all’università si esaurisse
tutto il possibile campo del sapere medico; in realtà l’università, come è noto
a chiunque abbia una laurea e sia esperto in una qualsiasi disciplina, fornisce
solo gli strumenti di base per orientarsi in un determinato mondo, ma per
essere davvero specialisti di una qualsiasi scienza (sia essa medica,
giuridica, storica, scientifica) occorrono poi anni di ricerche e di studi
successivi, oltre che anni di pratica effettiva.
Così come le conoscenze di un
avvocato maturano solo con gli anni e con lo studio, e le conoscenze di uno
storico pregrediscono con l’approfondimento successivo, ecc., allo stesso modo
il medico, una volta esaurito il percorso di studi universitario ha il dovere
di informarsi su tutti i progressi, gli studi, e le competenze, conseguiti nel suo
ambito e di non fermarsi alle nozioni, sia pur ottime e scientificamente
avanzate, apprese durante i primi anni.
Il medico quindi, una volta
formatosi e specializzatosi, non è esentato dal continuare ad informarsi, a
conoscere, ad approfondire, potendo (e anzi dovendo) approcciarsi anche a
metodi differenti ed alternativi rispetto a quelli ufficiali, specialmente
quando questi metodi siano praticati e conosciuti nell’ambito di comunità
scientifiche di paesi differenti o di scuole di pensiero che, benché diverse,
garantiscano serietà e competenza.
Occorre poi fare una
considerazione generale in ordine ai cosiddetti protocolli. Il protocollo
ufficiale per la classe medica, per qualsiasi malattia, segue un iter
procedurale che deve passare attraverso l’approvazione del Ministero della
salute. Tali protocolli garantiscono certamente affidabilità e sicurezza, ma
non esimono il medico dal dovere di informarsi sullo stato della ricerca nel
suo campo specifico, e non lo esimono dal seguire normali regole di buon senso
o salutistiche acquisite addirittura nei secoli, e frutto dall’esperienza
maturata in secoli di pratica medica per una qualsiasi malattia.
Per fare un esempio, nei
protocolli per la cura di alcune malattie dell’apparato respiratorio non è
previsto che al paziente venga vietato di vivere in un ambiente inquinato, per
il semplice motivo che questa è una regola conosciuta da secoli e data per
scontata (basta ricordare il vecchio medico di famiglia che prescriveva,
decenni fa, di fare un mese di montagna o un mese di mare).
Ora, non si può forse
pretendere che il medico oncologo conosca tutte le teoria, le tecniche e le
terapie alternative previste nel mondo (dalla medicina antropsofica a quella
hameriana) per applicarle in modo ottimale al paziente; ma si può, e si deve
pretendere, che il medico conosca almeno le basi dell’alimentazione corretta,
oltre a un ventaglio di possibilità alternative da consigliare al paziente a
seconda del caso specifico.
Solo per fare l’esempio più
banale, prendiamo in considerazione gli studi scientifici nutrizionali,
applicati ad una persona affetta da un tumore localizzato nell’apparato
gastrintestinale.
Il fatto di porre attenzione
alla dieta, per i malati oncologici il cui tumore sia localizzato in tali zone,
dovrebbe essere dato addirittura per scontato essendo una pratica conosciuta da
secoli (l’alimentazione vegetariana come pratica salutistica era conosciuta
addirittura da Pitagora, da Paracelso, e da Ippocrate, oltre ad essere ormai
riconosciuta anche da esperti oncologi come i professori Veronesi e Berrino,
solo per rimanere in Italia e riferirci a medici contemporanei).
La conoscenza dei principi
alimentari di base, ancorchè alla facoltà di medicina l’esame di alimentazione
sia un semplice “complementare”, deve essere considerata una delle basi della
scienza medica in genere. L’importanza dell’alimentazione nella salute è
infatti riconosciuta da secoli, ed è sufficiente entrare in una qualsiasi
libreria per trovare decine di libri sull’argomento, a riprova del fatto che
tali conoscenze non sono appannaggio di una ristretta classe di medici
alternativi, ma sono diffuse a tutti i livelli.
Che poi l’alimentazione sia
assolutamente fondamentale quando la patologia interessa organi dell’apparato
gastrointestinale è un dato che è addirittura ovvio anche per un profano.
Eppure la maggior parte dei
medici tradizionali trascura questo aspetto quando propone al paziente le sue
“cure”.
La mancata conoscenza di tali
nozioni da parte di un medico quindi, non è una negligenza “lieve” ma
addirittura grave o gravissima, potendo sconfinare addirittura nel dolo
eventuale. Ricordo quando ero in reparto, che feci una semplice domanda ad una
oncologa che era ben consapevole dell’importanza dell’alimentazione: perché se
conoscete l’importanza dell’alimentazione somministrate ai pazienti con tumori
allo stomaco, intestino, pancreas, gli stessi alimenti che somministrate negli
altri reparti?
La risposta fu “si tratta di
ragioni amministrative”.
In conclusione: il medico
ufficiale, non adeguatamente informato dei principi base della dietetica per i
pazienti tumorali, non versa solo in colpa grave, ma il suo comportamento
sfocia addirittura nel comportamento doloso.
Né ha pregio l’argomento,
cavalcato talvolta in sede difensiva da alcuni avvocati, che la patologia in
questione abbia comunque un esito mortale e quindi il medico non può dirsi
responsabile della morte; infatti anche se un paziente è terminale, ciò non
esime chi lo ha in cura da tenere nella massima considerazione sia la qualità
che la quantità della vita del paziente stesso; sul punto vale ricordare che
nel nostro ordinamento è proibita l’eutanasia, quindi a maggior ragione non è
permesso al medico di disinteressarsi di un paziente sol perché questo è
comunque destinato alla morte.
Si potrebbe obiettare nel
nostro caso che, per quanto riguarda gli studi scientifici alternativi a quelli
ufficiali, non esiste una prova sicura – non essendo tali studi effettuati su
ampio numero di pazienti tali da garantire la certezza - della possibilità di
guarigione; e tuttavia, essendo in gioco un bene importantissimo quale la vita,
anche una minima probabilità di sopravvivenza imporrebbe al medico di seguire
tale strada, qualora ovviamente non esistano controindicazioni e possibilità di
danni collaterali.
In particolare, per quanto
riguarda il nesso causale, la Cassazione ha avuto modo di stabilire che “nello
specifico settore dell’attività medico-chirurgica il nesso causale può essere
ravvisato quando alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base
di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica –
universale o statistica – si accerti che, ipotizzando come realizzata dal
medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si
sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente
posteriore o con minore intensità lesiva, e ciò non in forza di un mero
coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, ma secondo un
“elevato grado di credibilità razionale” o probabilità logica, con l’effetto
che il ragionevole dubbio in base all’evidenza disponibile, sulla reale
efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri
fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo determina la neutralizzazione
dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (cass.
9457/2013).
Ora applicando i principi
enunciati dalla cassazione ai casi più comuni di applicazione dei protocolli
ufficiali senza seguire alcuna dieta, possiamo affermare quanto segue:
- curando la paziente con una
dieta adeguata, l’evento si sarebbe verificato in epoca posteriore e con minore
intensità lesiva;
- a tale risultato si perviene
con sicurezza, e senza “ragionevoli dubbi”, in base agli studi medici più
avanzati in campo alimentare, con “elevato grado di credibilità razionale” e
probabilità logica.
Dunque il medico risponderà per
omicidio colposo, anche se il fatto che tali protocolli alimentari non vengano
insegnati all’università, potrà incidere sulla gravità del reato, ai sensi
dell’articolo 133 cp, e della sanzione finale irrogata dal giudice, che dovrà
tenere conto della particolare condizione di ignoranza in cui versa la classe
medica in questo settore, indotta in qualche modo dagli stessi protocolli
ufficiali approvati dal ministero e dallo stesso decreto Balduzzi, che non
incentiva i medici a scelte terapeutiche particolarmente innovative e
personalizzate.
Non è quindi il medico
Hameriano a dover rispondere di omicidio colposo, ma il medico tradizionale.
Per adesso i tentativi di screditare le teorie Hameriane sono l’estremo colpo
di coda di un sistema fallimentare, la cui evidenza è sotto gli occhi di tutti
quelli che hanno avuto qualcuno ammalato di tumore: le terapie tradizionali non
guariscono.
PS. A Mariapaola De Stefano
venne diagnosticato un tumore al seno nel giugno 2013. A febbraio 2014 si
operò al seno dopo vari cicli di chemioterapia. Dopo quindici giorni
dall'operazione le vennero diagnosticate metastasi a: cervelletto, midollo,
ossa, colonna, fegato. Ad aprile 2014 era morta.
Contemporaneamente una mia
amica, Francesca, ebbe una identica diagnosi di tumore al seno (identico anche
nel tipo di tumore, il cosiddetto triplo negativo, il più aggressivo e mortale
tra tutti i tumori al seno). A seguito dell'operazine al seno, come a Mariapaola,il
tumore era metastatizzato. Ad oggi è ancora viva, perchè ha seguito la terpaia
Di bella, con totale scomparsa delle metastasi.
Nella foto: un'immagine dello
spettacolo "protocols" per la regia di riccardo Dujani, dedicato alla
storia di Mariapaola e di Francesca. Quest'ultima, ha potuto seguire lo
spettacolo, tenuto al teatro Rada di londra. Mariapaola no.
http://tumoreterapiealternative.blogspot.it/2016/04/la-responsabilita-penale-e-civile-del.html
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