sabato 22 agosto 2015

Credere nell’utopia

Credere nell’utopia

di Paolo Bartolini
da Megachip.
«L’uomo è u-topico, non ha luogo: è proprio così, non ha un ambiente, fa di tutti gli ambienti il suo mondo. L’utopia è l’unica realtà umana. La realtà è una parte dell’utopia. Il problema non è questo, ma quest’altro: l’umanità può diventare eutopica, può raggiungere una buona dimora?» (R. Màdera, L’animale visionario, pagg. 148-9, Il Saggiatore, 1999). Così scrive lo psicoanalista e filosofo Romano Màdera nel libro che mi ha permesso di conoscerlo e, da allora, di seguirne con passione l’itinerario intellettuale e spirituale. Ho scelto queste frasi per cominciare una riflessione, in realtà più volte accennata e ripresa su queste stesse pagine virtuali, una riflessione che riguarda la questione più trascurata dagli intellettuali e dai militanti del cosiddetto antagonismo politico: la soggettività rivoluzionaria.

Come ha ricordato recentemente lo stesso Màdera in un suo articolo su L’Unità, è questa carenza di interrogazione profonda sulla natura dell’individualità post-moderna a rendere distopiche e inefficaci le attuali visioni di trasformazione dell’esistente.

In altre parole e in forma perentoria: non può bastare, al compito immane di superamento della mentalità economicista del dio capitale, una prassi collettiva che ambisca a rivoluzionare politica, economia e controllo della moneta.
Difatti in mancanza di un uomo nuovo, non più oeconomicus bensì consapevole dell’inter-essere che lo costituisce a livello materiale, sociale e ontologico, non si darà alcuna alternativa duratura ed efficace allo strapotere del sistema.

La presunzione, a dispetto di molte prove contrarie, che ciò possa comunque accadere, mi sembra eredità dei vecchi massimalismi novecenteschi, per i quali solo il taglio netto dei nodi tecnici, politici ed economici può spianare la strada alla nascita di una società giusta composta da individui e comunità solidali. Tutto questo viene puntualmente immaginato, e non a caso, come un passaggio rapido e traumatico, indispensabile per sovvertire i precedenti equilibri e rapporti di forza.
Mentre ci ha pensato la Storia a smentire impietosamente i facili sillogismi delle avanguardie rivoluzionarie (che tanto mi ricordano oggi gli argomenti “razionali” di coloro che vorrebbero uscire dall’eurozona e dall’Unione Europea, senza però saper indicare uno straccio di classe politica capace di assumersi la responsabilità di gestire la transizione), oggi rimane ancora percorribile la via stretta di una rivoluzione culturale all’altezza dei tempi.

Qui si accenna, in definitiva, ad un profondo mutamento psicologico e spirituale che accompagni ed orienti le modifiche strutturali sopra accennate, al fine di rendere ogni istante di questa battaglia pieno di senso, al di là dei risultati immediati. A questo mutamento, e alla comprensione delle sue coordinate emergenti, dà un contributo di notevole spessore il filosofo Massimo Diana nel suo ultimo libro “Credere. Percorsi di umanizzazione III” (Moretti e Vitali, 2013). Questo non è lo spazio per una recensione approfondita del volume, ma l’occasione per soffermarmi brevemente su una frase del grande teologo e mistico Raimon Panikkar che Diana ha inserito nel suo lavoro dedicato al senso del credere nella nostra epoca del disincanto.

Le parole di Panikkar sono le seguenti: “Vorrei insistere sul fatto che, nel mondo moderno, solo i mistici sopravviveranno. Gli altri saranno soffocati dal sistema, se vi si ribellano, o affogheranno nel sistema, se vi si rifugiano”.

A scanso di equivoci voglio anticipare a chi legge che le considerazioni sviluppate da Diana nel libro toccano con coraggio anche temi spinosi e decisivi come la decrescita e il cambiamento degli stili di vita per una convivenza pacifica nell’ecumene planetaria. In tal senso possiamo subito affermare che, parlando di “mistici”, Panikkar e Diana non evocano affatto il disimpegno e la fuga dal mondo, ma, al contrario, indicano un cammino prima intentato che può condurci ad un modo di stare al mondo, e di liberarci dai dogmi del capitalismo neoliberista, capace di mantenersi equidistante dalla passiva accettazione dello stato di cose e da un ribellismo disperato e fine a se stesso. Essere mistici, allora, vuol dire riconoscersi in un Senso che trascende il nostro autointeresse, in una comunione vivente con gli altri, con la natura e con la Vita di cui siamo espressione originale e irripetibile.

Questo Senso è fede, fiducia, apertura alla libertà dello Spirito e sensazione immediata di co-appartenenza all’Intero. Solo in presenza di una autentica ricerca filosofica e spirituale le azioni concrete volte a trasformare il presente, dunque le iniziative etiche e politiche, possono sperare di raggiungere l’obiettivo sognato e di dar frutti che non siano avvelenati.

D’altronde appare sempre più chiaro che sono energie di questo tipo, ben diverse dalla cieca fede nel dio denaro e nei pilastri concettuali del mito competitivo che lo sostiene, a dover essere oggi messe in moto e coltivate, senza odio verso i propri avversari. Perché – ed è questa la novità più interessante messa in luce dal libro di Massimo Diana – il nostro tempo è infine maturo per una spiritualità terrena aperta all’infinito, fatta di illuminazione e di trasformazione, di misericordia e di giustizia sociale e ambientale.

L’antidoto alla furia nichilista del capitalismo globale è forse custodito dove meno ce lo saremmo aspettato: nel cuore e nei gesti di chi “crede” ancora ma non cerca la salvezza “altrove”.

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